lunedì, novembre 22, 2010

Capitolo 4 -

Capitolo 4 – Lillian posa nuda

Per SMS:

Francine Paulson: Ciao Lilly, ti va di guadagnare qualche sterlina facile facile?

Lillian: Dimmi tutto!

Francine Paulson: C’è una accademia dell’arte che cerca modelle morfe per i corsi di disegno dal vero.

Lillian: Stai scherzando, spero. Io che poso nuda?! Con queste gambe?!

Francine Paulson: Lilly, lo faccio anche io. Ci andiamo insieme!

“Perché ti sei vestita così?” chiese Francine a Lillian. L’orsa indossava una maglietta con i colori della bandiera inglese, più abbondante del necessario per coprire forme sovrabbondanti e un paio di jeans scuri, mentre la tasso indossava una maglia rosa corallo, un gilet grigio, un set di collane colorate, una gonna corta e scura, calzamaglia nera e un paio di ballerine dorate. Francine era visiblmente perplessa dall’abbigliamento dell’amica, all’esterno dell’accademia d’arte Hewson.

“Perché così guarderanno i vestiti e mi faranno posare vestita,” si giustificò la morfa.

“Non dirmi che ti vergogni.”

“No, non mi vergogno: sono oltre la vergogna.”

“Dimmi una cosa: quando eri giù dopo l’irruzione degli HRS chi ti ha tirato fuori dal letto?”

“Quell’angelo di Francine Paulson. Ma tu sei la sua gemella cattiva, evidentemente, altrimenti non mi avresti indotto a fare una cosa del genere.”

“Coraggio, Lilly! Io peso quasi cento chili e sono alta due metri, sono un’orsa e sono una vera e propria palla di pelo, ho una sola curva, lunga e rotonda, eppure non mi vergogno minimamente! Amore, non è una sfilata di moda: questi qui non faranno altro che guardarti e disegnare! Sei… è brutta da dire, ma sarai poco più che un oggetto strano da ritrarre, tutto qua. Se ne fregano del tuo fisico.”

“A loro magari non importa, ma a me sì,” ribatté Lillian.

Francine la prese per un orecchio. “Ripeti.”

“Va bene, entro, ma lasciami l’orecchio, pazza!”

“Risposta esatta. Facciamo così: io entro per prima, mi metto lì e poso, e tu mi starai a vedere da fuori, così puoi farti un’idea.”

Lillian sospirò. “Proviamo. Mannaggia a me e a quando ti ho dato retta.”

Le due amiche entrarono; Francine presentò a Lillian il direttore del corso, le fece firmare il modulo di permesso e l’accompagnò fino alla porta dell’aula, che aveva una finestrella da cui osservare l’interno. “Ora entro. Tu stai qui e guarda quanto vuoi.”

Francine entrò nella stanza, e Lillian si sporse sulle punte dei piedi per vedere la scena.

All’interno, venti persone, tutti umani, maschi e femmine indistintamente sedevano dietro un cavalletto con una tela, armati di matite, gomme e carboncini, illuminati dalla luce del sole proveniente da grandi vetrate alle loro spalle. La morfa vide la sua amica salutare con un cenno della mano i presenti, salire su un palco e denudarsi con pochi gesti, lasciando scoperto ogni angolo del suo corpo, e sedendosi su una seggiola di legno sul palco con una naturalezza estrema, con la stessa tranquillità che avrebbe avuto se fosse stata seduta in casa sul sofà.

Lillian si chiese come facesse. Lei si era sempre posta mille problemi riguardanti il suo fisico, al di là dell’essere una morfa: non era perfetta, avendo qualche chilo di troppo, era di bassa statura e portava sempre degli occhiali dalla montatura circolare che la facevano sembrare uno stereotipato topo di biblioteca. Non era mai riuscita ad interfacciarsi al meglio con il mondo maschile, neanche dal lato morfico; una volta aveva conosciuto un giovane tasso, nel suo corso di studi universitario, ma lui sembrava non degnarla di uno sguardo, per quanto lei provasse ad attirare la sua attenzione. Questo aveva messo non pochi dubbi in Lillian riguardo la sua femminilità, la sua capacità di attirare, di sentirsi amata da qualcuno per ciò che era, dubbi che non era mai riuscita a dissipare del tutto.

E con quei dubbi Lillian entrò, un’ora dopo, nell’aula da disegno, salutando tutti, dopo una strizzata d’occhio d’incoraggiamento da parte dell’amica. “Mi… mi chiamo Lillian,” disse, togliendosi gioielli e abiti e sedendosi sulla seggiola.

“Avevo troppo freddo,” commentò Lillian. “E che imbarazzo… Non so come hai fatto a convincermi a fare una cosa del genere, Fran, sono… ancora imbarazzata! Me li vedo ancora lì davanti, stile plotone…”
“Esagerata!” disse Francine, passandole la tazza di cioccolata calda. Fuori il tempo era cambiato in fretta, passando dal sole della mattina a una pioggia torrenziale nel giro di tre ore.

“No, sul serio, non mi era mai capitato di sentirmi così… studiata, esplorata in ogni minima curva, ogni pelo, ogni capello…”

“Però avevi stile: hai tolto tutto, ma non gli occhiali.”
“Almeno quelli! Avranno avuto di che divertirsi…”

“Domani esporranno i risultati. Io vado sempre a vederli, sono curiosa di vedere come sono venuta.”

“Sei vanitosa… non me l’aspettavo da te.”

“Vieni, ti faccio vedere una cosa e te ne racconto un’altra. Un lato di me che non dico mai a nessuno.”

Francine si alzò, invitando Lillian a seguirla. Si diressero nella stanza da letto dell’orsa, che estrasse da un armadio un grande raccoglitore blu. “Io sono una orsa molto, molto vanitosa. Non sono mai piaciuta a nessuno, e, come vedi, non è facile piacere quando sei una palla di pelo in ogni senso possibile immaginabile…”
“Non sminuirti, Fran. Tu sei la persona con più stile che conosca, quando si tratta di vestiario, moda e cose del genere.”

“Appunto di questo volevo parlarti. Il modo in cui vesto, il modo in cui mi concio è tutto voluto, tutto scelto perché così io piaccio almeno ad una persona, quella che conta sul serio: me stessa,” disse Francine, aprendo il raccoglitore. All’interno, una serie di disegni, effettuati in modo impeccabile, che ritraevano Francine in varie pose: seduta, in piedi, in ginocchio… Lo stile era diverso per ogni disegno: c’erano disegnatori che si erano impegnati in ogni singolo pelo, altri che cercavano di raccoglierne le forme… Decine di Francine diverse guardavano lo spettatore da quei fogli, in una vera e propria edonistica celebrazione del suo corpo. “Tutti questi disegni mi dicono: questa sono io, Francine. E sono bella, cazzo, anche se lì ho dei rotoli che altre donne non hanno e quelle gambe sembrano due tronchi, anche se il mio sedere non è liscio come una pescanoce ma è peloso come un bobtail, oltre che grosso. E io mi esalto, io tiro fuori il resto di me stessa decorandomi: ninnoli, bracciali, collane, orecchini, abiti scelti con cura. Quando la mattina mi specchio, non vedo un’orsa grassa e pelosa, ma vedo che Francine è una meravigliosa morfa. E la cosa mi tira fuori un gran sorriso, con cui poi affronto tutti gli stronzi che mi guardano storto, la giornata pesante, la possibilità che un fanatico dell’HRS mi prenda in un angolo, che un teppista voglia rapinarmi o peggio… Ogni cosa. E alla fine del giorno, prima di andare a letto, mi rendo conto che nella vita l’immagine che uno ha di se stesso è fatta sì dalle cose che sai fare, che ti piacciono e che ti rendono viva, ma anche da ciò che sei, come persona e fisicamente. E l’immagine che hai di te ti deve piacere, o nella vita non andrai avanti mai.

“Tu Lilly sei bellissima,” disse, posandole una mano sulla spalla. “Io invidio i tuoi occhi nocciola e i tuoi capelli e ammetto che invidio anche le tue forme, anche se così mi piaccio. E quando sei attorno a me mi sento più allegra e serena, e hai una voce meravigliosa… Cazzo, ma di cos’altro hai bisogno per stare bene con te stessa?”
“Di qualcuno che mi ami,” disse Lillian di getto. La cosa zittì Francine per un attimo. “So che si può vivere anche senza, ma io ne sento il bisogno, Francine. Ho ventisette anni e non sono mai stata baciata se non dai miei genitori. E so per certo che questo è dovuto a quello che sono: una morfa!” esclamò Lillian, sedendosi sul letto e nascondendosi il muso fra le mani.

Francine si sedette accanto a lei, abbracciandola. “Povera stellina,” disse. Lillian istintivamente si chinò verso di lei, e l’orsa la accolse fra le sue braccia, carezzandole la testa.

“Sono ventisette anni che combatto…” disse Lillian fra i singhiozzi. “Quando ero piccola ho dovuto reprimere ogni cosa. Non potevo nemmeno avere una cotta: a che serviva innamorarsi, se nessuno voleva essere il fidanzato di un tasso?”

“Immagino…”
“Tutte le volte che… tutte quelle volte in cui avrei solamente voluto giocare con qualcuno, e tutte le volte che invece ricevevo solo insulti, con quella cattiveria che hanno solo i bambini, perché avevo un muso peloso e non un bel nasino…” Francine annuì, conscia di aver passato un periodo estremamente simile. “Ho passato tredici anni ad Edimburgo, in pieno centro. C’era di tutto, era una bella città, ma sai una cosa? Non ricordo di avere avuto un solo anno di felicità, lì! Non uno! Ci siamo dovuti trasferire in un… un paese grande come un’unghia, lontano, sperduto nel nulla, perché io potessi avere una vita tranquilla. Solo lì ci riuscivo. Solo lì.” Lillian si asciugò le lacrime con un fazzoletto e si soffiò il naso. “Tutto attorno non ci sono che prati, ruscelli e rocce. C’è tanta erica, e lavanda. In primavera tutto profuma.”

“Sotto questo punto di vita, noi morfi siamo fortunati.”
“Cioè?”

“Sentiamo gli odori meglio degli altri. Quindi anche più profumi.”

“Vero. Forse è l’unico lato positivo.”

“Ma non c’è proprio nulla che ti ricordi in modo positivo, tesoro?”

Lillian tirò su col naso, prima di rispondere, reprimendo un singhiozzo. “Una cosa, sì. Anzi, due. La prima sono le persone che ho incontrato lì, nel paese. Gente semplice, dei carissimi signor nessuno che… be’, quantomeno non sembrano morire dalla voglia di ferirmi a morte. Mi sorridono. Mi trattano come uno di loro, almeno all’apparenza. Anche se hanno un po’ di diffidenza, di timore a volte, glielo vedo, lo leggo negli occhi e lo sento nell’odore della pelle. Almeno ci provano,” concluse, prima di far scorrere ancora le lacrime. “E poi c’è la casa. Ci sono i miei, papà e mamma. Mio padre… ha sempre portato con sé un pianoforte, in tutte e due le nostre case. E mi mettevo lì sempre, tutte le volte che sentivo il bisogno di sfogarmi. Mi ha insegnato tutto, mi ha insegnato tutto lui, e se avrò un futuro in questo mondo penso sempre che lo dovrò anche a lui e a questo. Mi ha creato un angolino in cui potevo sempre andare per essere me stessa, veramente me stessa: quando ero lì, quando sapevo già suonare qualcosa, se mi vedeva al pianoforte si metteva seduto e stava lì, solo ad ascoltare, senza dir nulla e senza commentare, mi lasciava suonare fino a quando non ero io ad andare da lui per parlargli, per stare con lui.”

“Tuo padre è un uomo adorabile.”

“Tu l’hai conosciuto?”

Francine annuì. “Era venuto qui poco tempo fa, quando hai affittato l’appartamento. Ti era venuto a fare una sorpresa, insieme a tua madre. Ti ricordi?”

“Sì, mi ricordo. E’ stato bellissimo. Aveva portato di tutto…”

“Tesoro mio, siamo coetanee. Siamo della stessa generazione di morfi, la prima. I morfi sono nati con noi, la gente non ci conosceva e non sapeva chi fossimo. Ancora oggi nessuno lo capisce veramente, anche se ci hanno studiati e analizzati in tutti i modi possibili immaginabili. E ancora oggi, dopo ventisette anni di sforzi e di casini, c’è ancora gente che ci tratta come se fossimo spazzatura, rifiuti della società, senza rendersi conto che sono loro i veri rifiuti. Anche io ho dei cedimenti a volte, non sono tutta d’un pezzo, e ci sono dei giorni in cui gli sguardi delle persone mi pesano come coltellate nel petto. E anche io sono da sola, non ho mai avuto nessuno che potesse amarmi e baciarmi e prendermi anche solo per un abbraccione o una coccola, a malapena mia madre mi voleva guardare. Ma io vado avanti, e trovo ogni volta comunque la forza per rialzarmi e guardare avanti, perché io so che nella mia vita ciò che conta sono io, e io solamente, per me stessa. Non mi interessa se c’è qualche stronzo in giro che dice che noi siamo merda, io non lo sono, e questo mi basta. Non c’è altra persona a cui tu debba rendere conto al mondo al di fuori di quella che vedi ogni giorno allo specchio, e quella persona ci sarà sempre, che ti piaccia o no. La forza per queste cose è dentro di noi, Lilly, sempre, anche se ci sono cose fuori che ci possono aiutare a tirarla fuori. Aspetta, ti prendo un fazzoletto.”

“Grazie,” fece Lillian, asciugandosi gli occhi con la manica della maglia.

“Ho sentito dell’idea che hai avuto, quella del gruppo. E’ bella, mi piace. Cosa vorreste suonare?”

“La mia idea era di allestire una cover band.”
“Ma cover di che altro gruppo?”
“No, non di uno specifico gruppo, ma semplicemente in grado di proporre riarrangiamenti di vari pezzi musicali diversi. Un gruppo fatto con soli morfi.”

“Mi piace. Non so suonare, ma ho un garage qua sotto e un buon impianto stereo se volete provare. Lilly, so che tieni a questo progetto: fai di tutto per portarlo avanti, coltivalo e fallo crescere, e vedrai che farà miracoli per te e la tua sicurezza.”

Ora fu Lillian ad abbracciare l’amica. “Grazie, Fran. Ho sempre saputo che eri un angelo.”

“Mi basta essere tua amica.”

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