lunedì, agosto 15, 2011

Capitolo 49 – Lillian rivede una persona


“Domani non sei di turno, giusto?” chiese Geena, appendendo il camice di Lillian.
“No,” rispose la ragazza. “Domani suono.”
“Suoni? Sei in un gruppo?”
“Sì,” disse Lillian. “Da… poco tempo, solo un paio di settimane. Siamo al secondo concerto.”
“Ma bene, sono contenta.” La labrador si fermò sulla soglia del ripostiglio, le mani sui fianchi. “Aspetta un secondo,” disse, dopo un attimo di riflessione. “Ma… il gruppo di cui parli…”
“Sì?”
“Non mi dirai che è quel famoso gruppo fatto solo di… di morfi?”
“Be’, sì,” rispose Lillian, in evidente imbarazzo, passandosi una mano fra i capelli. “Sì, è il London Morph Sextet.”
“Quindi per settimane ho lavorato con una musicista di fama e non me lo ha mai detto nessuno.”
“A quanto pare…”
“Sei imbarazzata. Come mai?”
“Perché non mi piace considerarmi in questo modo, ecco.”
“Perché, scusa? Dovresti esserne fiera. Ieri c’era un articolo su di voi, su un giornale.”
Lillian annuì.
“La cosa non ti rende orgogliosa, cazzo?” l’incalzò Geena.
“Ultimamente faccio fatica a sentirmi orgogliosa per quello che faccio,” disse Lillian, evitando lo sguardo della labrador.
“E come mai, di grazia?” replicò l’altra. Si appoggiò con la schiena al muro, incrociando le braccia sul petto. “Mancano ufficialmente ancora cinque minuti alla fine del tuo turno, quindi non ti lascerò andare via prima che tu mi abbia detto tutto. E no, non pensare di scappare, bella.”
“Penso che siano af…” iniziò a dire di getto, ma si fermò. Trasse un bel respiro. “Scusa.”
“Potresti anche aver ragione,” fece la labrador, avvicinandosi a Lillian. “Potrebbero non essere cavoli miei, ma visto che non mi sembra che tu sia una criminale o una poco di buono, non vedo proprio come tu non possa essere orgogliosa di te stessa. A meno che tu non finga tutto il tempo in cui stai qui, ma ne ho viste troppe fingere, credimi, per non essere in grado di riconoscere quando qualcuno mi racconta una balla, e tu non sei una di quelle. Non hai neanche l’odore di qualcuno in grado di reggere una bugia per più di mezz’ora, quindi fuori il rospo.”
Lillian sospirò. “Hanno detto che sono una piccola saputella del cazzo, e più passa il tempo più mi rendo conto che ultimamente sto diventando sempre più… arrogante. Piena di me,” rivelò. “Lo vedo proprio con il mio gruppo. Fino a pochissimo tempo fa tutto funzionava bene, poi…” Scosse la testa. “Ho iniziato a… a dire e fare delle cazzate, Geena. E ho rovinato un rapporto che poteva andare alla grande. Per questo non sono orgogliosa di me.”
“E cosa avresti fatto di così orrendo?”
“Mi sono imposta sugli altri. Ho imposto il mio volere e… le mie idee con troppa forza su persone che non se lo meritavano,” disse la tasso.
“Non puoi semplicemente dire “ehi, ragazzi, ho sbagliato, ci ho pensato su e vi chiedo scusa?” E’ semplice.”
“Me lo dicono tutti.”
“E tu ovviamente non lo fai.”
“No.”
“E’ così facile, credimi.”
“No, non lo è,” ribatté Lillian. “Non così tanto, almeno.”
“E perché?”
“Perché… perché nessuno mi crederebbe. Oramai ho perso la credibilità che avevo presso di loro. Se devo provare, mi limito ad andar lì, cantare, dire la mia per poi andarmene. E non c’è interazione da parte di nessuno di loro. Credo mi sopportino solo perché sono una delle due voci del gruppo.”
Geena diede un’occhiata all’orologio. “Il tuo turno è terminato. Ora puoi andare. Ma, ehi, pensa a prenderti del tempo con loro per chiarire. Forse le cose non sono messe così male come pensi, eh?”
“Ah, vorrei che fosse così. Ma grazie per la chiacchierata.” Lillian sorrise. “E tu dovresti essere quella acida.”
La tasso prese la sua felpa, l’annodò in vita e alzò la mano per salutare Geena, ma si interruppe. Annusò l’aria. “C’è… odore di gas,” disse.
L’altra infermiera fece altrettanto, e annuì. “Sì, ora lo sento anche io,” confermò. “A volte si sente, ma non è mai così forte.”
“Andiamo a controllare,” disse la tasso. “Potrebbe trattarsi di un problema serio.”
“E’ fuori discussione, tu sei fuori del tuo turno. Vado solo io.”
Lillian si piazzò di fronte alla labrador, in mezzo al corridoio, impedendole di avanzare. Incrociò le braccia sul petto. “Se vuoi andare, mi porti con me. Se continui a discutere, qui le cose possono aggravarsi.”
Geena scosse la testa. “Se ti dovesse succedere qualcosa, non…”
“Sarà mia responsabilità. Lo so. Ora andiamo, però,” disse, voltandosi e incamminandosi lungo il corridoio, i passi rapidi di Geena dietro di lei.
Le due morfe si diressero verso la cucina, seguendo l’odore di gas, che andava facendosi sempre più forte in quella direzione. Non appena aprirono le porte della sala mensa, l’entità dell’odore le fece comprendere che tutto originava senza ombra di dubbio da lì. Geena tossì. “Ecco, questo succede quando lasci un umano a guardia del gas,” disse. Corse verso le finestre lungo la parete, aprendole tutte una dopo l’altra. “Quegli idioti non sarebbero… in grado di sentire nulla… nessun odore più debole… di questo,” concluse, aprendo l’ultima finestra, in fondo alla sala. “Noi, invece, sì, e anche bene, aggiungerei.”
Lillian corse ai fornelli, dietro il bancone. “Viene da qui,” disse.
“Non toccare nulla,” la fermò Geena, mentre la raggiungeva. “Dobbiamo chiamare la squadra di sicurezza.”
“A quest’ora?”
“A qualunque ora, Lillian. I problemi non dormono, e nessuno qui sa nulla di… idraulica, gas, condotti e cose del genere per poter trovare e riparare il danno,” spiegò Geena, componendo dal suo cellulare il numero del pronto intervento. “Li paghiamo, quindi possiamo prenderci la libertà di buttarli giù dal letto a qualsiasi ora, se serve.”
Nel giro di mezz’ora, un furgone bianco parcheggiò di fronte all’ingresso della clinica. Ne scesero due uomini con indosso dei gilet verde fluorescente e bande catarifrangenti. Il più muscoloso dei due si portava appresso una valigia in metallo. Lillian li incontrò in corridoio, mentre Geena li accompagnava attraverso la clinica verso la sala mensa. L’uomo con la valigia la squadrò per alcuni istanti, e lei fece altrettanto. Era alto, tarchiato e calvo, e il volto le era familiare, anche se non seppe dire dove l’avesse già visto. Dal canto suo, l’operaio aggrottò la fronte, osservandola, quindi distolse di scatto lo sguardo: doveva averla riconosciuta.
“Un tubo rotto,” concluse Geena, dopo che i due se ne furono andati. “Manutenzione mai effettuata, in effetti avrebbe dovuto essere cambiato l’anno scorso,” spiegò. “Ci è andata bene. Ancora un’ora e il posto sarebbe divenuto molto, molto problematico. Lillian? Mi stai ascoltando?”
“Sì, problematico,” fece la tasso. “Con tutto quel gas.”
“A che pensavi?”
“Credo di conoscere… il tipo grosso con la valigia degli attrezzi,” disse. “E lui di sicuro ha riconosciuto me. Ma non riesco a ricordare…” Sbadigliò. “Dove l’ho già visto.”
“Hai bisogno del letto, dà retta a me.”
“Sì, esatto. Anche di quello.”

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