lunedì, agosto 15, 2011

Capitolo 50 – Lillian si vendica


Tottenham Court Road. Pioveva a dirotto. A ben vedere, avrebbe potuto trattarsi di una qualsiasi giornata di Aprile, non di Giugno.
Lillian si era presa una serata di riposo: niente prove, niente clinica, solo la strada e lei. Aveva bisogno di evitare di pensare a persone e problemi, e neanche la presenza di Ivan l’avrebbe fatta star meglio. Era sola, in mezzo alla folla lungo la via; nessuno sembrava prestare particolare attenzione ad una morfa solitaria seminascosta sotto un grande ombrello grigio fumo, e lei lasciava che tutto le scorresse attorno.
Davanti a sé, una giovane morfa, una gatta, a giudicare dalla coda che usciva dai jeans attillati. Un ragazzo, senza alcunché per ripararsi dalla pioggia, si avvicinò alla giovane, entrando al riparo del suo ombrello. Le fece passare una mano sulle spalle, rapido, stringendola a sé; la morfa parve cercare di divincolarsi, ma lui le sussurrò qualcosa all’orecchio, e lei smise di agitarsi. Insieme, si avviarono verso un vicolo, e sparirono al suo interno.
Il cuore le prese a battere con violenza. Nessuno sembrava aver fatto caso ai due, oltre a lei, nonostante la strada fosse tutto fuorché deserta, ma la scena non aveva nulla di naturale. La tasso deglutì, e decise di avvicinarsi al vicolo, distante pochi passi. Le gambe presero a tremarle. Si affacciò.
L’uomo che aveva visto afferrare la gatta era alle sue spalle, contro il muro; la mano sinistra le bloccava il polso, il braccio avvolto intorno al torace per stringerla addosso a lui, mentre con la mano destra le chiudeva la bocca. Facile per lui, dato che la morfa era poco più bassa di Lillian e di corporatura decisamente snella. Davanti ai due, un terzo uomo, corpulento, teneva in mano un oggetto scuro, corto, a forma di “T.” Un rasoio? Il ghigno sul volto dei due non lasciava spazio a interpretazioni positive del loro atteggiamento.
Lillian prese un bel respiro. Andare a chiedere aiuto? Chi l’avrebbe creduta? Si guardò intorno, vedendo pochissimi morfi fra la folla che camminava a passo svelto. Qualcuno avrebbe forse fatto qualcosa per la ragazza?
D’altronde, andare da sola contro quei due sarebbe stato pericoloso…
Lillian chiuse gli occhi, per un solo secondo. Trasse un gran respiro, chiuse l’ombrello e si gettò nel vicolo.
L’uomo col rasoio venne colto di sorpresa: la morfa abbassò con tutta la forza che aveva in corpo il suo massiccio ombrello sulla sua testa, facendolo barcollare per un attimo. L’altro, nel frattempo, gettò in terra la gatta, cercando di afferrare Lillian. Quando la tasso vide la mano dell’uomo avvicinarsi rapidamente al suo volto, reagì senza pensare, mordendola. L’uomo urlò, cercando di ritrarre la mano, ma Lillian aumentò la pressione del morso, sentendo in bocca il sapore del suo sangue. Avrebbe voluto vomitare, ma cercò di controllare l’impulso, pensando solo alla situazione in cui si trovava.
Lasciò andare la mano dell’uomo, che fece pochi passi indietro stringendo i denti, riservandole uno sguardo atterrito prima di darsi alla fuga. L’altro cercò di completare l’opera avvicinandosi col rasoio ancora stretto fra le dita; Lillian agì prima che lui potesse raggiungerla, graffiandone il volto con forza. Mirava agli occhi, senza pensare, senza riflettere, lasciando solo che fossero rabbia e paura ad agire e parlare per lei, lasciando che fosse il suo istinto a muoverla. L’altro urlò, lasciando cadere il rasoio in terra. Si coprì il volto, per poi seguire il suo compagno in fondo al vicolo.
Lillian attese qualche altro istante dopo che anche il secondo se ne fu andato, ansimando per la fatica a cui non era abituata. Era fradicia, i capelli le si erano incollati al volto, il pelo era scomposto e gli abiti zuppi, il cuore minacciava di esploderle da un momento all’altro, ma qualcosa dentro di lei stava esultando a pieno ritmo.
Cercò con gli occhi la ragazza, che si era raggomitolata in un angolo, vicino ad un cassonetto. La stava guardando, ancora scossa. Lillian le sorrise e le si avvicinò, le gambe pesanti e le braccia indolenzite per la forza usata. “Come… come stai?” le chiese. “Non… non… non ti hanno fatto nulla, ve-vero?” La gatta scosse la testa. Lillian le passò una mano fra le orecchie, sul cranio senza capelli. Non doveva avere più di quattordici anni, giudicò. “Va tutto bene,” disse. “Sono andati via.” La ragazza annuì. “Meglio che tu vada a casa. Dove abiti?”
“Qui vicino,” riuscì a dire la gatta, dopo qualche istante.
“Ti accompagno. Vieni con me,” disse, porgendole la mano. Vedendo che l’altra morfa non dava segno di reagire, fu lei a prenderle la mano, delicatamente, carezzandole prima il dorso. “Non avere paura.” La ragazza si alzò in piedi, con fatica, dandole l’impressione di portar con sé dei gran pesi.
“Mi spiace, temo che il mio ombrello non funzioni più,” disse Lillian, accennando a quel che rimaneva: la tela era strappata, il fusto piegato e diverse asticelle penzolavano senza sostegno. “Dov’è il tuo?”
“Lo… lo hanno… buttato là,” fece l’altra, indicandolo. Lillian lo raccolse, lo pulì con qualche colpo e lo aprì: era ancora integro. “Vieni,” le disse poi, passandole una mano sotto un braccio, così che lei avesse qualcosa con cui sostenersi e per farle sentire il suo contatto, la sua presenza.
La accompagnò verso il suo appartamento, che non distava più di cinque minuti da quel punto. Il cuore di Lillian si strinse, mentre lei si rendeva conto che questa aggressione era avvenuta sotto gli occhi di tutti e a pochissimi metri dalla casa della gatta.
Le luci alle finestre del pian terreno erano accese. La ragazza suonò a lungo il campanello. Ad aprire fu un uomo di mezz’età, anche lui minuto, stempiato, con indosso un pullover verde e un paio di pantaloni scuri. Guardò prima Lillian, poi la gatta, che gli si gettò fra le braccia.
“Buonasera,” fece Lillian, imbarazzata.
“Mi hanno aggredito,” spiegò per lei la ragazza.
“Cosa? Dove è successo? Cos’è successo?”
“Due… tipi…” disse Lillian. “Hanno afferrato… sua figlia, e l’hanno presa con loro. Avevano un rasoio, credo volessero rasarla, o… qualcosa del genere.”
Lo sguardo dell’uomo si indurì. “Emily, come stai?” disse, rivolto alla ragazza.
“Sto bene, papà. La signorina… li ha mandati via.”
L’uomo le rivolse uno sguardo perplesso, squadrandola dall’alto verso il basso. Lillian si strinse nelle spalle. “Ho fatto quello che potevo,” disse, sperando che la pioggia avesse lavato via le macchie di sangue sulle labbra e sulle unghie.
L’uomo annuì. “Se vuole posso accompagnarla a casa, signorina.”
“Non… non ce n’è bisogno…”
“E’ senza ombrello, papà,” disse la gatta. “Portala tu a casa. Lo ha rotto in testa a uno di quelli.”
L’uomo aggrottò la fronte. “Ah,” disse, in tono ammirato.
“Portala a casa, papà.”
“Va bene. Ma stai attenta, chiuditi in casa, tesoro. Mi raccomando, io torno il prima possibile,” disse, indossando una giacca scura.
“Sì, papà,” fece la ragazza. Si voltò verso Lillian, sorridendole. “Io… non so come…”
“Be’, ero lì,” rispose Lillian. “Cos’altro avrei dovuto fare?”
Dopo aver chiuso a chiave la porta, l’uomo la accompagnò alla macchina, una piccola monovolume nera. “Cosa è successo, di preciso?” le chiese, avviando la vettura. “Oh, mi scusi: dove abita, signorina?”
“Mandela Street, signore. Camden.”
“Camden. Va bene.”
Lillian gli raccontò la vicenda, tralasciando i particolari più truci. Ogni volta che menzionava la gatta, gli occhi dell’uomo sembravano sprofondare un po’ di più. “Io e mia figlia viviamo da soli,” disse. “Dopo che mia moglie ha deciso che non poteva sopportare di avere un gatto per figlia.”
“Mi dispiace.”
“A me no,” rispose l’uomo, con una durezza inaspettata. “E’ mia figlia. Era nostra figlia. Ha sbagliato a lasciarci, ma noi siamo stati più forti e siamo andati avanti al nostro meglio. Non sono il padre migliore del mondo, ma penso di essere fino ad oggi riuscito a dare ad Emily il massimo per le nostre possibilità. Emily è in cura da uno psichiatra, proprio per il trauma dell’abbandono da parte di sua madre. Non riesco ad immaginare… come si senta, dopo quello che è successo oggi.” Ad un semaforo, l’uomo si voltò a guardare Lillian. Il suo sguardo si era addolcito. “Grazie, signorina… non so il suo nome.”
“Lillian. Mi chiamo Lillian Edgecombe.”
“Grazie, Lillian. Lei è stata un angelo, davvero. Emily si ricorderà a lungo di quel che ha fatto per lei.”
“Ho fatto quello che chiunque avrebbe fatto, signor…”
“Gallow. Herman Gallow.”

“Basta!” esclamò Lillian, alzandosi in piedi. La donna trasalì, mentre Missy smise di suonare. “Questa è l’ultima volta che la sento usare questo tono in riferimento a me, signora Gallow. Pretendo rispetto!” esclamò la morfa, puntando il dito contro la donna.
“Ma io…”
“Io sono qui perché lei possa permettere a sua figlia di avere una educazione musicale di alto livello, signora Gallow,” disse Lillian, avanzando verso la donna. “Sono una educatrice, la sua insegnante di musica. Pensa che non sappia fare il mio lavoro solo perché sono una morfa, non è così?” La donna non le rispose. Si limitò a passare lo sguardo da lei a sua figlia, più volte, incapace di esprimersi. “So che è così. Lo leggo nei suoi occhi e lo sento nella sua voce, tutte le volte che mi rivolge parola. Non so neanche io come sia la sua considerazione nei miei confronti, ma è lampante che è estremamente bassa. Non vuole che sua figlia venga educata da me? Benissimo, so qual è la porta, ma si ricordi che state tutte e due perdendo tempo, soldi e un’occasione che difficilmente otterrete di nuovo, e sa perché? Perché è stata la signorina Ashcroft a consigliarvi me sopra altri insegnanti perché lei sa il mio valore. Mentre, dal canto suo, signora Gallow, comportandosi così dimostra solo di essere una grandissima ignorante!”
“Ma come si permette…”
“Mi permetto perfettamente, dal momento che in questa storia la vittima sono io!” la interruppe Lillian. “E non intendo più essere sottoposta al suo trattamento. Quindi, signora Gallow, ha due possibilità: trattarmi come una sua pari, con la dignità che merito, visto che sono qui per lavorare con sua figlia e non per perdere tempo, e mi sembra anche di averle ampiamente dimostrato che ho delle capacità, o sbattermi fuori. Se sceglie quest’ultima strada…” Lillian alzò le mani. “Sa quello che perde e sa perfettamente che con sua figlia tornerà al trattamento solito. Non farà un passo avanti. Perché quel che sua figlia ha imparato lo deve alla sua bravura e a me, non ai suoi precedenti insegnanti. Lo so io, lo sa Missy e lo sanno anche all’istituto di musica, e se non mi crede è libera di contattare chiunque là per vedere le valutazioni delle prestazioni di sua figlia!”
“Ha ragione, mamma,” intervenne Missy. “E’ con Lillian che ho fatto progressi, perché lei è brava. Lei mi sa incoraggiare e mi dà la spinta per suonare meglio, mentre le altre non lo sapevano fare.” La ragazza si alzò, dirigendosi verso Lillian e ponendole una mano sulla spalla. “Se la mandi via, me ne vado anche io.”
“Non essere drammatica, tesoro. E’ solo un’insegnante, ne troveremo un’altra…”
Lillian strinse i pugni. Avrebbe voluto prendere la testa della donna e sbatterla con violenza contro lo stipite della porta, più e più volte, ma sapeva che il gesto le sarebbe costato il carcere. Si costrinse a contare fino a cinque, prima di parlare. “Se è questa la sua ultima parola, signora Gallow, le do le mie dimissioni,” disse, quindi. In silenzio, sotto lo sguardo attonito di Missy, Lillian prese la sua giacca e il suo zaino. “Avrà presto notizie dall’istituto, e probabilmente da qualche avvocato.”
“Ma, Lillian…” iniziò Missy. “Stronza!” urlò, all’indirizzo di sua madre.
“Signorina!”
“Un cazzo!” Lillian si fermò ad osservare l’alterco. Lo sguardo di Missy lanciava saette, mentre la donna sembrava divenire sempre più granitica, come se gli insulti della figlia la rendessero più forte. “Stai sbagliando tutto, come al tuo solito! Non sei capace di pensare che per me c’è qualcosa di buono a cui tu non hai pensato, non sai pensare a quanto tratti male gente che non se lo merita… te l’ho detto, e ora lo faccio!”
“Missy,” l’interruppe Lillian, che aveva intuito cosa stesse per fare la ragazza. “Grazie per il supporto. Anche io penso che tua madre sia una stronza, e ho altri motivi per pensarlo oltre a questi, ma non farlo per me. Non ne vale la pena, davvero.”
“Quali altri motivi?”
Lillian sogghignò. “Lo sai che hai una sorella, Missy?”
Le due sgranarono gli occhi. “Missy, non ascoltarla…”
“Vaffanculo, mamma. E’ te che non ascolterò più. Lillian, cosa vuoi dire?”
“Sai, pochi giorni fa ho conosciuto tua sorella: si chiama Emily, ed è una morfa, una gatta.” Il colore svaniva dalla carnagione della donna mentre Lillian parlava: la tasso non poté non trarne un intimo godimento, una grossa rivincita su quella figura così negativa per lei, e proseguì. “Una piccola gatta soriana di tre anni più grande di te. Tua madre odia così tanto i morfi da non averne neanche voluto avere una per figlia. E quando ne ha avuto abbastanza di lei, se n’è andata ed è venuta qui. Signora Gallow, è stato un grosso errore mantenere il suo nome da sposata, lo sa? A volte si fanno incontri interessanti, in giro per Londra. Ma non si preoccupi, perché prima o poi la giustizia passerà a saldare il conto con lei, e io ci metterò tutte le zampe per farlo succedere appena possibile. Arrivederci.”

La signora Ashcroft si massaggiò gli zigomi, fissando per qualche istante il vuoto. “Signorina Edgecombe,” disse quindi, ricomponendosi. “A… ammetto che è la prima volta che… simili scene pietose hanno luogo nei confronti di uno dei nostri insegnanti…”
“Immagino, signorina Ashcroft,” le fece Lillian. “Ma dal canto mio ci sono abituata. Mi succede da una vita.”
“Posso… penso di poterlo immaginare, signorina Edgecombe,” disse l’altra, indossando un paio di occhiali da lettura per poter consultare il rapporto stilato da Lillian. “La signora Helena Gallow, madre dell’allieva Missy Gallow, l’avrebbe ripetutamente insultata in diversi modi, qui dice.”
“Sì,” confermò la morfa. “Non a parole, non in modo diretto, ma… più che insulti, parlerei di mobbing. E’ più adeguato.”
“Mobbing.”
“Mobbing, signorina Ashcroft. Mi ha impedito di lavorare. E so per certo che è accaduto perché io sono una morfa, perché so che la signora Gallow ha già un precedente per abbandono di minore, al riguardo.”
“Prego?” chiese la donna, battendo più volte le palpebre, visibilmente scioccata. La tasso le spiegò brevemente l’accaduto. La donna sospirò. “Sono tempi orrendi,” commentò a bassa voce. “Signorina Edgecombe,” disse quindi. “Io… da parte dell’istituto le pongo le mie più sentite scuse, e le prometto che faremo il possibile per avviare un procedimento legale nei confronti della famiglia della sua allieva. Nel frattempo, potremmo trovare un altro allievo di cui lei si possa prendere cura…”
“La ringrazio, signorina Ashcroft. Vorrei solo che la povera Missy non rientrasse nella cosa, se possibile…”
Qualcuno bussò alla porta. “Signorina Ashcroft?” disse la segretaria, dietro di essa. “C’è un cliente che ha assoluta necessità di parlare con lei e con la signorina Edgecombe.”
Lillian drizzò le orecchie. Un profumo familiare proveniva da dietro l’uscio… “Fatela entrare, allora,” disse la donna.
Quando la porta si aprì, Missy si gettò fra le braccia della tasso, mandandola quasi a cadere in terra con tutta la sedia. “Missy!” esclamò Lillian, che non era pronta alla cosa. “Cosa ci fai qui?”
“Non voglio che tu te ne vada, Lilly!”
“Missy… Calmati, davvero,” disse Lillian, cercando a sua volta di abbracciarla.
“La prego, signorina Ashcroft,” fece la ragazza, divincolandosi e andando verso la scrivania della donna. “Lei non… Io ho bisogno di Lillian, come insegnante. E… è grazie a lei se ho… se ho…”
“Signorina, per favore,” disse l’altra, prendendole una mano. “Si calmi, ora. Le prometto che faremo il possibile.”
“Andrà tutto bene, Missy, vedrai.” 

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