Londra correva attorno alla tasso in quella sera di Agosto. Non esistevano strade, automobili, moto, stop o passaggi pedonali, non c’erano edifici o semafori, a stento la morfa riconosceva l’esistenza della strada su cui stava correndo: c’era solo la villa di Ivan.
Il terrore che fosse realmente responsabile di quanto era successo era per lei un carburante più forte di qualsiasi altra cosa. Non poteva crederci, non voleva crederci: anche dal terzo piano, le sue fattezze erano ben più che riconoscibili. Non poteva sbagliare, a meno che il giovane non avesse un gemello malvagio della cui esistenza lei non fosse a conoscenza.
Fermò la bicicletta a pochi passi dalla villa e smontò, senza curarsi di chiuderla, fermarla o altro.
Non riuscì ad avvicinarsi ai gradini all’ingresso dell’appartamento: venne bloccata dalla polizia, che arrivò a sirene spiegate, fermandosi davanti alla villetta.
I poliziotti scesero in tutta fretta, intimandole di farsi da parte. Bussarono alla porta, il signor Matheson aprì, sconvolto alla vista delle forze armate. Li fece entrare. Lillian udì un gran trambusto provenire dall’interno della casa. Poco dopo, due poliziotti uscirono, trasportando con sé Ivan in manette. Il ragazzo camminava a testa bassa, ma non reagiva.
Il mondo di Lillian cadde, frantumandosi in mille pezzi assieme al suo cuore. Smise di pensare, limitandosi a constatare la presenza di Ivan in manette, scortato dagli agenti.
Forse non era tutto perduto, si disse: probabilmente lo stavano solo trattenendo per accertamenti. A volte accadeva. Magari lui non c’entrava nulla, era stato solo un suo grandissimo, orrendo sbaglio per cui non sapeva come farsi perdonare…
“Ivan!” esclamò, al suo indirizzo. Lui alzò la testa di scatto, dirigendo lo sguardo nella sua direzione. Lo vide perdere immediatamente colore e incespicare, prima di venire introdotto nella vettura, che ripartì subito dopo.
La morfa prese uno dei poliziotti da parte, chiedendo cosa stesse accadendo. L’uomo le confermò che il ragazzo era stato prelevato per accertamenti, ma non andò oltre, invitandola a farsi da parte.
La ragazza rimase sul posto, fissando le vetture della polizia che se ne andavano nella notte. Si voltò verso la porta d’ingresso, aperta. La figura del signor Matheson si stagliava sulla soglia. Il volto era in ombra, e Lillian non seppe dire che cosa stesse guardando l’uomo.
Si voltò, tornando sui suoi passi; salì in sella e pedalò verso casa.
Lillian prese il giornale del giorno dopo e lo stracciò con forza. Poi ne prese i pezzi, li appallottolò e li cestinò.
Le tremavano le mani. Dovette sedersi, o le gambe non avrebbero retto. Il telefono squillava, ma la morfa non si diede pena di rispondere.
Ivan aveva confessato. Lui e altri suoi amici avevano lanciato molotov contro la clinica. Erano tutti stati arrestati nelle prime ore della giornata, ed entro l’alba avevano a loro volta confessato. Fra di loro, il tecnico che aveva finto di riparare il tubo del gas, che aveva rivelato di aver manomesso l’impianto. Tutti erano Human Race Supporters.
Compreso Ivan.
Lillian si rannicchiò sulla sedia del tavolo, avvolgendosi le gambe con le braccia, e pianse.
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