mercoledì, agosto 17, 2011

Capitolo 52 – Lillian salva una vita


Lillian stava affacciata alla finestra del terzo piano. L’odore di gas nel palazzo era piuttosto forte per un morfo con le sue capacità olfattive, ma si chiedeva se lo fosse abbastanza per un essere umano.  Che si stesse ripetendo la fuoriuscita delle settimane precedenti?
Sentì il passo pesante di Geena avvicinarsi. “Lillian? La senti anche tu questa puzza?”
“La sento anche io, in effetti. Sarà ancora il tubo della sala mensa?”
“Ah, non chiederlo a me…” La grossa labrador sbuffò. “Questo posto sembra nuovo, ma cade a pezzi. Dovremmo chiamare…”
Il colloquio venne interrotto dal rumore di tre moto in accelerazione. “Branco di pazzi,” commentò Geena. “A quest’ora di notte a tutta birra per la strada con quelle moto…”
Le tre moto si fermarono a poca distanza dalla clinica, sul lato opposto della strada. Uno dei passeggeri si tolse il casco per un attimo, confabulando con un altro. Era giovane, biondo, i capelli corti. Lillian aguzzò la vista: non era Ivan, quello?
Il ragazzo indossò di nuovo il casco, quindi prese da uno zaino una bottiglia e la passò ad un altro, che ne portava già una seconda. Quindi salirono tutti sulle moto nere e ripartirono sgommando. Lillian vide tre lampi volare in direzione dell’istituto dalle moto, e un forte boato riempì l’aria.
“Che cazzo…!” Subito l’allarme anti-incendio scattò nell’edificio, mentre il rumore di esplosioni nei piani inferiori faceva tremare tutto. “Gli ospiti!”
“Non c’è un impianto?” chiese Lillian.
 “Ma che impianto! Te l’ho detto, questo posto cade a pezzi! Fottitene dell’impianto, Lillian, dobbiamo tirare fuori tutti! Ci siamo solo noi due, stasera!”
Senza aggiungere altro, la labrador corse verso il corridoio, aprendo tutte le porte con il suo passepartout, mentre Lillian andava dalla parte opposta facendo lo stesso.
“Geena! Geena!” urlò Lillian, pochi minuti dopo per sovrastare il rumore dell’allarme antincendio. “Hai trovato tutti gli ospiti?” chiese alla labrador, che stava conducendo tre pazienti verso le scale di emergenza.
“Sì, li ho presi tutti! No, aspetta, non sono tutti!”
“Chi manca?”
“Il signor Penderton! Non era in stanza! Dobbiamo trovarlo!”
“Vado io!”
“No, non vai da nessuna parte da sola, ragazzina!”
Lillian le puntò un dito contro. “Fai come ti dico io, Geena! Vai di sotto, gestisci i pazienti che stanno a terra, portali via e occupati di loro! Io penso al signor Penderton!”
La labrador esitò per qualche istante, quindi uscì con gli altri e li condusse a terra, mentre la tasso corse a perdifiato per tutti i corridoi chiamando a gran voce il padre di Jules.
Il fumo era asfissiante e il caldo le faceva lacrimare gli occhi. Lillian controllò prima le stanze degli ospiti, cercando l’uomo dovunque. Lo trovò seduto in sala mensa, con un panino in mano, il pigiama ancora indosso. Il fuoco aveva ormai invaso la cucina, e minacciava di fare il suo ingresso in mensa, ma Penderton sembrava non curarsene.
“Signor Penderton! Dobbiamo andarcene!” disse Lillian, prendendolo per le spalle.
L’uomo reagì con violenza, scansandola e alzandosi. “No! Non vado da nessuna parte!”
Lillian gli mollò uno schiaffo, in modo istintivo ma senza forza. L’uomo si fermò immediatamente, massaggiandosi la guancia e guardando la morfa con fare attonito. Sembrava che l’idea che lei lo avesse schiaffeggiato fosse al di là della sua capacità di comprensione. “Lei viene con me, chiaro?”
Senza dargli il tempo di replicare, la tasso lo prese per un braccio e lo condusse prima fuori dalla mensa, quindi alle scale di emergenza. Una squadra di pompieri era già presente sul posto, assieme a due ambulanze, pronti a prestare soccorsi e a occuparsi dell’incendio. Attorno, una folla di curiosi che non si erano fatti fermare dal freddo e dalla notte.
Lillian accompagnò l’uomo verso terra, con dolcezza e cautela, e lo lasciò alle squadre di soccorsi per cercare la labrador, che era occupata a discutere con un infermiere riguardo le necessità mediche di uno dei pazienti.
“Hai trovato Penderton?” le chiese.
“Sì, era in sala mensa. L’ho scortato giù, ora è assieme agli altri.”
La cagna annuì. “Non volevo darti ordini, prima.”
Lillian annuì, posandole una mano sulla spalla: era quanto di più simile a una scusa avesse mai sentito pronunciare da Geena. “E’ tutto a posto. Ora sono tutti in salvo, è questo che conta.”
La labrador rivolse uno sguardo all’edificio. I pompieri erano all’opera, e avevano messo in sicurezza il circondario per poter agire senza disturbi. “E’ stata una molotov,” disse.
“L’hai vista?”
“Ho visto qualcuno che la lanciava da giù di sotto. Tre tizi con delle moto, ci hanno lanciato addosso delle molotov.” Scosse la testa. “Poteva finire male, Lilly. Molto male. Se li prendo…”
“Non occupiamoci di loro, Geena. Occupiamoci dei nostri ospiti, sono più importanti di tre imbecilli. Quello che conta è che nessuno si sia fatto del male, no?”
“Sì, d’accordo, ma ora dove andranno? I pazienti umani troveranno un ospedale, cure mediche e quant’altro, ma i nostri?”
“Anche loro in ospedale.”
“Non sarà facile per loro rimanerci.”
“Ci saremo noi e ci sarà per loro la comunità morfa, Geena, vedrai. Avranno sostegno.”
Geena sospirò. “A volte vorrei essere speranzosa come te.”
“E io cinica come te,” ribatté la tasso. “Scusami, vado a vedere come sta il signor Penderton,” disse, e andò presso l’uomo, che era seduto all’interno di un’ambulanza. Vide arrivare Lillian, ma non cambiò posizione: rimase seduto, con lo sguardo perso nel vuoto e una tazza con del tè caldo fra le mani.
“Sarei dovuto morire,” disse.
“No, signor Penderton.”
“Sì, invece. Jules, mio figlio, soffrirà come me. Ho la corea. La corea ti fa impazzire. E’ una cosa genetica: vuol dire che ce l’hanno anche i tuoi figli. E io ne ho uno…”
“Lo conosco bene, signor Penderton. Jules è uno dei miei amici più cari.”
“Sì. E soffrirà come me…”
Lillian lo fissò negli occhi per qualche istante, quindi gli pose le mani sulle spalle, afferrandolo con una presa salda. “Mi ascolti, signor Penderton. I morfi non subiscono le stesse malattie degli umani. Suo figlio non soffrirà mai la corea.”
“Davvero?” disse, strabuzzando gli occhi. “Davvero? Davvero?”
Lillian annuì, cosciente di aver mentito. “Sì. L’ho letto da qualche… sul Times, qualche tempo fa. C’era una ricerca. Jules non soffrirà, lei non ha alcuna colpa.”
La bocca dell’uomo si aprì e si richiuse, le labbra tremanti. Poi, Penderton strinse Lillian in un fortissimo abbraccio, facendole mancare l’aria.
Quando fu sicura che la situazione fosse in mano ai paramedici e ai pompieri in modo completo, Lillian si sedette su una delle ambulanze, vuota. Tutto il peso della situazione le piombò addosso di colpo, come se le avessero caricato sulle spalle una massa di cadaveri. Era certa di aver visto Ivan in sella ad una di quelle moto, certa come sapeva di chiamarsi Lillian… ma come era possibile? Si rifiutava di accettarlo, di pensare che fosse possibile una cosa simile…
Le si fecero vicini tre poliziotti. “Signorina? Va tutto bene?”
Lei annuì, guardandoli a malapena.
“Possiamo farle qualche domanda?”
“Sì.”
“Lei era nell’edificio al momento dell’accaduto?”
“Sì.”
“Dove si trovava?”
Lillian indicò la finestra, da cui in quel momento si stava sporgendo un pompiere. “A quella finestra. Corridoio del terzo piano. Pazienti morfi in cura, alcuni disagi mentali. Gli unici presenti.”
“Sì, lo sappiamo. Gli altri erano fortunatamente fuori con una delle visite turistiche organizzate dalla clinica. Lei e la signora Geena Willow eravate le uniche infermiere di ruolo, questa sera?”
“Sì. Credo che lei ve l’abbia già confermato.”
“Sì, signorina. Avete potuto vedere cos’è successo?”
Lillian annuì, mordendosi il labbro inferiore. “Erano tre moto da corsa di grossa cilindrata, nere. Hanno lanciato tre molotov. Due persone per moto.” Fece una pausa. “Una… forse ne ho riconosciuta una.”
“Mi dica,” fece l’uomo, prendendo un taccuino.
“Ragazzo bianco, umano… capelli corti… biondi… giovane, poco più di vent’anni…” Lillian non seppe se proseguire: era assolutamente certa che quello fosse Ivan. Gli occhiali che portava erano calibrati al meglio per le sue diottrie mancanti, e aveva sempre avuto una memoria fotografica per i volti. Anche la fisionomia era quella di Ivan. Non poteva in alcun modo sbagliarsi. “E’ il mio ragazzo. Ivan Matheson.”
“Ne è sicura, signorina?” chiese il poliziotto, dopo un attimo di esitazione.
“Come sono sicura… di chiamarmi Lillian Edgecombe, signore,” disse, sentendo un gran vuoto farsi strada dentro di lei.
“Ehi,” le fece Geena, dopo che i poliziotti se ne furono andati. “Tutto ok? Sei distrutta.”
“Già.”
La labrador le si sedette accanto. “E’ successo qualcosa di grosso, immagino.”
Lillian si passò una mano fra i capelli, quindi le rivolse gli occhi, che iniziavano a riempirsi di lacrime. “Sai, ti ricordi quando mi hai detto che gli umani che cercano donne morfe sono sempre strani?”
Geena annuì, visibilmente preoccupata.
“Forse… avevi ragione.”
“Cioè?”
“Ho riconosciuto uno dei tipi che hanno lanciato le molotov. Era il mio ragazzo.”
Geena strabuzzò gli occhi. Aprì la bocca, cercando di articolare qualche parola, senza risultato. Quindi l’abbracciò. Lillian si lasciò andare. “Ne sei sicura? Veramente sicura?”
“L’ho visto… era sulla prima moto…”
“Magari non era lui, Lillian. Eravamo al terzo piano.”
“Ho una… buona vista… con questi occhiali. E lo… riconoscerei fra tutti.”
 Geena la guardò per qualche istante, indecisa, senza sapere se proseguire o dire qualcosa di diverso. Aprì la bocca, ma venne interrotta dall’abbraccio di Lillian. “Non riesco a crederci…” mormorò la morfa.
“Be’… ecco… magari non è lui, no?” cercò di dire Geena. “Magari era solo molto simile. Può capitare, penso.”
“Cosa devo fare?”
“Vai da lui, domani. Vai da lui, fatti sentire e vedere,” le suggerì subito la labrador. “E parla con lui, cerca di capire cosa stesse facendo, verifica se fosse veramente lui…”
“Meglio farlo subito… L’ho detto, l’ho detto…”
“Alla polizia?”
Lillian annuì. “Andranno da lui…”
“Vai, allora. Corri.”

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