mercoledì, agosto 17, 2011

Capitolo 57 – Lillian torna a casa


Su Facebook:
LillianEdgecombe: Sono a casa. E sono tornata con una missione: fare il culo a Ivan.
Kevin Clarken: Ho saputo tutto, Lilly! Senti, io fra una settimana sarò lì a Londra, ci possiamo incontrare se hai bisogno!
LillianEdgecombe: @Kev: grazie, Kev, sei un tesoro, ma non ho bisogno di aiuto per ora. Però se vuoi passare sei il benvenuto!
Claire Hogarth: Ho un paio di guantoni da boxe, se ti servono. Ci posso anche mettere dei sassi, così gli fai più male.
LillianEdgecombe: @Claire: non lo picchierò, anche se se lo merita. Gli farò più male in altri sensi.
Jules Penderton: Le palle, Lillian, le palle! Anche se quel verme del cazzo non ce le ha moralmente parlando, sessualmente è un maschio. Lì sì che fa male. *Fidati.*

Lillian incontrò Ivan nella stanza dei colloqui. Sedevano assieme ad un tavolo, soli nella stanza assieme a due guardie carcerarie dallo sguardo infelice. Lui indossava la divisa del carcere, lei una maglia a righe bianche e nere orizzontali e gonna scura.
Ivan teneva lo sguardo basso e le braccia conserte sul petto. Di tanto in tanto si passava la mano fra i capelli o si toccava una guancia. Lillian si limitava a fissarlo, con una espressione indecifrabile. Lei stessa non avrebbe saputo descrivere il suo stato emotivo, che scivolava in modo fluido dalla più profonda delusione alla furia cieca, passando per una grandissima tristezza.
“Io spero che tu non ti renda conto di ciò che hai fatto,” gli disse, dopo alcuni secondi di silenzio.
“Io… non posso dire di esserne sicuro.”
“Tu mi hai illuso. Sei… sei uno stronzo della peggior specie, Ivan.”
“Non ti…”
“Sì, invece!” sbottò Lillian. “Lo hai fatto eccome. Hai parlato tanto di amore, amore, amore. Amore di qua, amore di là… Oh, lo vedo, il tuo amore. Non mi hai mai baciato in pubblico, non mi hai mai detto nulla di dolce in presenza di altre persone, non… Inizialmente ho pensato che fosse solo timidezza, o qualcosa del genere, ma poi ho capito tutto quando ti ho visto dalla finestra dell’ospedale.”
“Io non…”
“Hai anche il coraggio di giustificarti?”
“Be’, io… sì, l’ho fatto, lo so.”
“Ecco, questo lo sappiamo tutti, Ivan.” Si sporse verso di lui. “Perché hai fatto tutto questo? Perché mentirmi?”
“Io ti amavo.”
“Stronzate. Me lo hai appena dimostrato.”
“Sì, invece. Ho sempre provato qualcosa per te…”
“Oh, davvero? Non doveva essere così forte, visto che non ti ha impedito di lanciarmi contro una cazzo di molotov!”
“Non sapevo che fossi lì!”
“Non ti giustifica comunque! Hai cercato di uccidere delle persone come me!”
“Ma non te!”
“Sei un grandissimo… non so se tu sia più idiota o più stronzo.”
“Non potevo dire nulla su di noi!”
“Ah, questa mi è nuova. E, sentiamo, perché, di grazia?” chiese la morfa, incrociando le braccia sul petto.
“Perché… perché se lo avessero saputo quelli dell’HRS mi… mi avrebbero impedito di far carriera.”
“Come lo avrebbero fatto?”
“Uno dei… dei miei superiori, futuri superiori nella Marina, è… un membro del partito. Se avesse saputo che…”
“Aspetta. Aspetta,” l’interruppe. “Tu vuoi dirmi che hai lasciato che la tua voglia di far carriera fosse non solo più forte di ciò che decantavi di provare per me, ma anche di… di tutta la tua umanità? Hai preferito far carriera ma cercare di uccidere degli innocenti, far carriera e non far sapere a nessuno che hai cercato di portarmi a letto?” Lillian sbatté con forza i pugni sul tavolo, facendo trasalire le guardie carcerarie.  “Ivan,” disse, con un tono di voce così deciso e feroce che il ragazzo non riuscì a protestare. “Non una parola di più. Ci fai una figura migliore, dammi retta.” La morfa si alzò dalla tavola, puntando le mani sul ripiano e sporgendosi verso il giovane. “Fai schifo. Mi auguro per te che tu possa rendertene conto e capire il tuo enorme, gigantesco errore, prima ancora di capire quanto mi abbia fatto star male. Ma per il mio egoismo, e per vendetta, vorrei che tu marcissi per sempre qui dentro, anche se so che non è possibile, perché quel santo di tuo padre riuscirà a trovarti un avvocato così bravo da tirarti fuori anche dall’inferno. Non so se credi nell’aldilà o in cose del genere, ma se ci credi, be’, tieni seriamente in conto la possibilità di passare l’eternità in un posto pieno di dolore. E fin quando questo non avverrà, stai lontano da me, o dai miei amici, o la prossima volta passerai dal pronto soccorso invece che dal giudice. Sono stata chiara?”
Ivan annuì.
“E scema io a starti dietro. Scema io a farmi prendere per il culo dai tuoi modi dolci. Ora me ne vado. Mi hanno chiesto di testimoniare contro di te. Non so se lo farò: per amore di giustizia dovrei andarci, ma sarebbe un modo per considerarti molto più di quanto non ti meriti. Addio, Ivan,” disse. Quindi si alzò e uscì a passo rapido dalla stanza, il cuore leggero come una piuma.
Nel corridoio incontrò il padre di Ivan. La stava aspettando con un completo nero e una gran faccia da funerale.
“Signorina Edgecombe?” la chiamò.
“Signor Matheson.”
“Io… non le chiedo di perdonare mio figlio. Non lo posso fare nemmeno io. Non riesco ad immaginare il dolore che possa averle arrecato il suo gesto e… e tutto quanto. Ero all’oscuro delle sue attività…”
“Signor Matheson, io non ce l’ho con lei. Lei è una persona adorabile e non merita quel verme che sta in quella stanza come figlio, mi scusi la franchezza.”
“La pensiamo allo stesso modo riguardo Ivan.”
“Ne sono contenta,” ammise. “Non ho rancori nei suoi confronti, solo… un gran rammarico, perché non so come possa sentirsi un padre di fronte a situazioni del genere. Io sono certa che lei non ha educato Ivan affinché facesse cose del genere.”
“Sì. E’ così. Ma voglio chiederle scusa a nome dell’intera famiglia, signorina Edgecombe,” disse, estraendo di tasca una busta bianca e porgendola alla morfa. “I soldi non fanno la felicità, ma sono uno dei pochi mondi che io conosca. Mi sono permesso di aprire un conto a suo nome e di depositarvi i risparmi che tenevo per Ivan. Qui dentro ci sono le coordinate e una carta di credito a sua disposizione. Scelga lei l’uso che preferisce, ma non accetto rifiuti. Per ora è… l’unica cosa che credo di poter fare per lei e la sua famiglia. Se poi ci sarà altro, be’… la mia… sa dove trovarmi,” concluse, cedendo all’imbarazzo.

Mills la aspettava all’esterno del carcere, le mani in tasca. Lillian stessa gli aveva imposto di non entrare: voleva trattare la cosa da sola.
“Grazie di aver aspettato,” gli disse.
“Pensavi che me ne sarei andato?”
“Non lo so…” fece. Lo abbracciò, quindi sprofondò il volto nella sua giacca, mentre si alzava il vento. Lillian digrignò i denti e ringhiò, mentre Mills la avvolgeva fra le sue braccia, carezzandole la testa dolcemente.
“Va tutto bene, Lilly. Non ti può più far del male, ormai.”
Lillian non rispose, continuando a respirare pesantemente. I due rimasero in piedi in quella posizione per diversi minuti, in attesa che la tasso si calmasse.
“D’accordo,” disse lei, quando si sentì meglio. “E’ passata. Almeno per ora, direi.”
“Che ne dici di andare a casa, amore?”
“Un attimo solo,” disse lei, aprendo la borsetta. Ne estrasse gli occhiali che Ivan le aveva regalato. Andò presso la macchina e li incastrò sotto una delle ruote anteriori. “Tesoro, ho bisogno che tu mi faccia un piacere…”
Lui non replicò: salì in macchina e avviò il motore, quindi abbassò il finestrino. “Dimmi quando.”
“Anche subito,” rispose lei, scostandosi. Il cane diede gas e Lillian, un’espressione soddisfatta sul volto, osservò la macchina schiacciare e fare a pezzi i costosi occhiali. La morfa annuì. “Grazie, amore,” disse, salendo dal lato passeggeri. “Ora possiamo andare.”

“C’è poco da dire,” fece Lillian, in piedi al centro della rimessa, di fronte al resto dei London Morph Sextet. “Mi sono comportata come una merda nei vostri confronti.”
“Hai fatto qualche cazzata, sì,” commentò Nicholas. “Ma, ehi, tutti ne facciamo, no?”
“No, Nico, è diverso,” disse la tasso. “Vi ho trattato male. Ci sono poche scuse, e non ne voglio: ho sbagliato, e me ne pento. E vi chiedo scusa. Mi hanno suggerito in molti di farlo, ma non ho mai avuto il coraggio, prima di oggi,” ammise. “Sapevo di aver sbagliato, ma non volevo chiedervi scusa, perché pensavo che non sarebbe stato sufficiente.”
“Avrei fatto lo stesso anche io,” disse Corinne. “Anche io ti ho evitato tutto il tempo, dopo quella discussione di quel giorno, lo facevo perché non sapevo cosa pensare: è colpa mia? Colpa sua? Io so che sono permalosa, chiacchierona e tutto il resto, e…”
“No, Corinne, davvero. Ho esagerato io. Ed è a te che devo chiedere principalmente scusa, perché è con te che me la sono presa, più che con chiunque altro. E… ora sono qui. Spero che possiate veramente perdonarmi,” disse, deglutendo per mandar giù il groppo che le si stava formando in gola.
Nicholas rise. Si alzò, le andò incontro e le pose una mano sulla spalla. “Io non avevo niente di cui perdonarti, quindi per me è ok.”
Milla lo seguì. “Anche per me,” disse, abbracciando Nicholas. “Ma mi fa piacere vederti di nuovo e vedere che sei tornata sui tuoi passi. Vederti così distante mi faceva un po’ paura.”
Anche Yvonne e Mills si aggregarono. “Per noi è tutto a posto,” disse la ragazza. “Bentornata, Lilly.”
Lillian li abbracciò tutti, tirando su col naso. Quindi si rivolse a Corinne, ancora seduta al suo posto. La licaone evitava il suo sguardo. “Corinne,” disse, andandole incontro. Si sedette in terra di fronte a lei. “Ti chiedo scusa. Ho esagerato.”
Corinne si voltò verso di lei. Gli occhi erano sempre più acquosi. “Scusa, Lilly… è anche…”
“Oh, scema,” l’interruppe lei, alzandosi e abbracciandola. “Lo sai che sono stata gelosa di te?” le disse sottovoce.
“Mills mi ha detto tutto. Mi vergogno come un verme,” fece l’altra. “Era un periodo nero.”
“Perché non mi hai detto nulla?”
“Non pensavo che… che ti interessasse.”
“Guardami,” disse la tasso. “Siamo un gruppo. Siamo insieme. I problemi di uno sono i problemi di tutti. Quindi non farti prendere dal panico. Noi siamo qui anche per te. Altrimenti non ha senso che suoniamo insieme.”
“A proposito di suonare,” fece Nicholas, accordando la sua chitarra. “Non è ora di parlare del prossimo concerto? Io rivoglio il palco!” 

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