martedì, agosto 09, 2011

Capitolo 47 – Lillian incontra Jules


“Eccoci qua,” disse Lillian.
Jules se ne stava in piedi, un braccio appoggiato sul corrimano del ponte di Westminster. Nell’altra aveva una sigaretta accesa. “Ciao, Lilly.”
Lillian guardò prima la sigaretta, poi il suo amico. La coda del topo si muoveva pigra sul marciapiedi, senza forze. Le due cose la misero sull’attenti. “Da quando fumi?”
“Due settimane,” rispose l’altro. “Ho iniziato ieri il terzo pacchetto. Questa è la seconda della giornata. Lo so che fa venire il cancro, lo so che fa male e tutto quanto, non voglio nessuna morale.”
Lei gli posò una mano sulla spalla. “E io non sono qui per questo, Jules. Ero solo curiosa.”
Il topo trasse una boccata di fumo. “Ho iniziato per… non lo so. Non so perché uno inizi a fare una cosa del genere, davvero. Mi è venuta voglia di provare, e ho iniziato.”
“Non c’è bisogno che ti giustifichi con me, Jules. Davvero.”
Jules annuì. “Grazie.”
“Non ti chiedo come stai. Posso immaginarlo.”
“Sai,” disse Jules, lanciando una monetina da un pence nel Tamigi. “Nessuno aveva mai… non ci avevamo mai pensato. Per papà, suo padre era semplicemente… senile, sai.”
“Non si possono immaginare cose del genere, Jules,” gli disse Lillian. “Non le puoi prevedere.”
“Già, me ne sono reso conto. Non è facile convivere con una consapevolezza di questo tipo. Sapere che… diventerai pazzo. Non hai scelta, non puoi combatterlo, puoi solo… accettarlo. Sai qual è la cosa più disastrosa? Che non hai alcun controllo sulla cosa. Non ci sono medicine, non è una malattia mentale che puoi curare con qualche pillola e un buon terapista.”
Lillian annuì.
“E’ come essere morfi. Non ci puoi fare niente, lo sei e basta, anche se ti fa schifo. Anche se la gente ti guarda dall’alto in basso. Per te è facile essere un tasso, Lillian?”
“No, non lo è stato e penso che non lo sarà mai,” rispose lei. “Sono stata fortunata ad avere dei genitori che mi hanno voluto bene per ciò che ero, ma non è andata così per tutti noi.”
“Mio padre mi vuole bene, e anche mia madre. Questo lo so, non lo metto in dubbio. Mio padre, poi, si è sempre sentito in colpa per questa storia.”
“Cioè?”
“Pensa che io sia un morfo, che io sia un topo, perché lui lavorava come derattizzatore,” spiegò Jules, appoggiandosi al corrimano sul ponte. “Come se fosse un… com’è che si dice? Un contrappasso, capisci? Lui uccideva i topi, e come figlio ha avuto un topo, e invece di prendersela con Dio, col destino o chissà cos’altro, se la prende con se stesso, e non c’è mai stato verso di fargli cambiare idea. Non ho mai avuto una vita facile,” disse Jules. “E mai per causa sua, ma ce l’ho sempre fatta. E lui vedeva i miei successi, li vedeva, ma non li considerava così come considerava il fatto che io dovessi combattere contro tutto e contro tutti perché ero un topo e non una persona normale come lui e mamma…”
“Tu sei più normale di molti esseri umani.”
“Lo so, Lilly. Lo so. Era un modo di dire.” Jules sbuffò. “Non sono depresso, sono solo molto triste, quindi non mi sto denigrando. Avrebbe dato la sua vita perché io ne potessi avere una normale, come quella che lui avrebbe voluto per me. E ora… lui è in quella clinica,” disse, indicando la clinica Collins, ben visibile da quel punto. “E morirà pazzo.”
Lillian si morse le labbra, cercando di non dire all’amico inutili ovvietà. “Non devi… concentrarti su di questo, Jules. Faresti il suo errore.”
“Cosa vuoi dire?” chiese il topo, dopo qualche attimo.
“Che… che non devi pensare al fatto che tuo padre morirà pazzo in quella clinica, perché faresti come tuo padre: vedresti solo ciò che ha di negativo.”
“Cos’ha di positivo?”
“Ha te e sua moglie, Jules! Voi gli volete bene, gli starete vicini in tutti i momenti e non lo lascerete solo.”
“Lo so, ma non lo aiuteremmo.”
“Non lo guarirete, d’accordo, ma lo aiuterete a farlo sentire meno solo, meno malato.” Poi gli porse il volantino della clinica. “Guarda.”
 Jules lo lesse e le rivolse uno sguardo perplesso. “Che significa?”
“Che ci sono anche io con lui.”
“Continuo a non capire.”
“Mi sono iscritta come infermiera volontaria,” disse, passandosi una mano fra i capelli.
“Cosa? E perché?”
“Perché… I motivi sono tanti, Jules,” disse lei, guardando il fiume. “Uno in particolare è molto egoista, e un po’ me ne vergogno.”
Il topo scrollò le spalle. “Non c’è nulla di che vergognarsi nell’essere egoisti. Me lo puoi dire, se vuoi.”
“Be’… la gente ha iniziato a considerarmi come un’arrogante. Una saputella del cazzo, mi hanno chiamato. E ho avuto bisogno di dimostrare almeno a me stessa di non esserlo.”
“E quindi sei… una infermiera volontaria. Per…?”
“Aiutare qualcuno senza avere nulla in cambio, facendo cose che per altri possono essere… poco piacevoli. Ci sono pochi infermieri perché non a tutti piace avere a che fare con i malati. E poi,” aggiunse. “Voglio stare vicino a tuo padre. Voglio essere un tramite fra te e lui. E voglio essere sicura che ci sia sempre qualcuno lì con lui.”
“Ferma, Lilly. Scusa, apprezzo il gesto, ma non te l’ho chiesto io.”
“Lo so, Jules. L’ho fatto io di mia spontanea volontà. So che avrei dovuto chiedertelo, mi dispiace di non averlo fatto, ma ho seguito l’istinto, ecco. Ho visto questo volantino e mi sono iscritta, punto. Non sono stata su a pensarci molto.”
Jules gettò in terra il mozzicone di sigaretta. “Be’… grazie del pensiero, Lilly. Se… se ci sei tu con lui, forse potrò stare più tranquillo.”
“Ti fidi di me?”
“Sì, è naturale,” disse il topo. La guardò, sorridendo. “Non è difficile fidarsi di te, sai.”

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