martedì, novembre 09, 2010

Capitolo 1 - Lillian trova lavoro

Lillian guardava dal finestrino dell'autobus la gente camminare lungo Oxford Street, stretta in cappotti e cappelli, il cielo una uniforme distesa di batuffoli di cotone sporchi. Lei indossava un parka grigio, regalo di un suo amico, guanti sottili di lana rosa fuxia a cui aveva tagliato le dita, un abito nero che le arrivava alle ginocchia, un po' stretto lungo i fianchi, girocollo, calzamaglia dello stesso colore, stivali scamosciati color terra di siena e i suoi occhiali rotondi. Portava sulla testa una fascia ampia, del colore dei suoi guanti, che le spingeva i capelli ricci e neri lungo la schiena e le liberava il muso. Le mani le tremavano un po’, non per il freddo ma per l’emozione.

Si girò attorno, guardando le persone che la circondavano. Era seduta da sola sul sedile a due posti lungo il lato sinistro del bus; di fronte a lei, due donne di una certa età che confabulavano a voce bassa, commentando il modo di vestire di passanti occasionali; dietro, due ragazzetti con la divisa di qualche college, i volti grigi come le nuvole di quel giorno. Lungo il lato destro, una mamma dai lunghi capelli biondi con un bambino riccioluto e biondastro, meno di sei anni, che la stava fissando ormai da un po'. Lillian gli sorrise; il bimbo si ritrasse contro la madre; lei lo guardò, lui indicò Lillian, lei seguì con lo sguardo il suo ditino; lo abbracciò, lo prese vicino a sé dicendo qualcosa come “non è niente,” a voce così bassa che Lillian faticò a sentirlo. Lillian distolse lo sguardo, il sorriso cancellato dal muso, un peso che iniziava a raccogliersi nel suo stomaco.

Si alzò, dirigendosi verso l'uscita, e scese alla fermata successiva, ancora distante dalla sede dell'istituto di musica. Guardò l'orologio: le dieci e un quarto, aveva ancora più di mezz'ora per arrivarci, anche a piedi si sarebbe trattato di poco tempo.

Quella paura che molti ancora mostravano quando si faceva vedere, anche dopo anni da quando tutto era iniziato, le sbatteva sul muso tutta la durezza della sua situazione e la faceva sentire fragile; fragile, nonostante tutte le sue piccole e grandi battaglie passate, vinte e perse: le lotte con i compagni di classe, le amicizie negate per “i peli sulla faccia,” le cotte piccole e grandi che si costringeva a farsi passare perché nessuno avrebbe mai voluto essere il fidanzato di un tasso, la difficoltà nel trovare un lavoro in attesa del responso di qualche università perché nessuno voleva una come lei in cassa...

Era solo nel suo piccolo paesino scozzese che Lillian riusciva a sentirsi se stessa, a casa dei suoi, in quel micromondo attorniato dall'erica e dalle pietre; lì tutti la conoscevano, e tutti quantomeno nascondevano il timore e la paura nell'incontrarla. Lei aveva imparato a riconoscere quando qualcuno la disprezzava, anche sotto la maschera di sorrisi e sguardi sereni, e sapeva leggere queste emozioni nel volto di chiunque. Era a casa sua, per conto proprio, che aveva imparato a suonare il pianoforte e a cantare, per accompagnarsi, sotto il controllo e il consiglio di suo padre.

E forse proprio il consiglio di suo padre ora l'avrebbe aiutata ad avere il suo piccolo riscatto personale.

“La signorina Lillian Edgecombe?” chiese la segretaria, entrando in sala d'aspetto. Era tranquilla: la guardava negli occhi senza averne paura. “Le signore la stanno aspettando. Prego, da questa parte.”

Lillian strinse fra le mani, nervosa, la collana con il pendente in legno a forma di stella che le arrivava sullo stomaco. Pregò la sua buona stella di farle andar bene questo colloquio, alzandosi dalla sedia e seguendo la segretaria per i corridoi dalle pareti dipinte di giallo spento fino ad una stanza spoglia, con un pianoforte e una gran cattedra dietro cui sedevano due donne sulla sessantina, che portavano i capelli legati in una coda e in uno chignon e indossavano abiti scuri lunghi fino alle caviglie. La fissarono con quattro occhi cerulei, alzandosi dalle loro sedie e pregandola di sedersi a sua volta. Nei loro sguardi Lillian lesse una certa durezza, severità, ma ancora una volta nessun disprezzo, nessuna paura. Forse curiosità.

Lillian si sedette, aggiustandosi l'abito. “Bu... buongiorno,” le salutò. Teneva le mani in grembo, strette l’una all’altra per evitare che tremassero per l’emozione.

“Buongiorno. Lei è Lillian Edgecombe, è corretto?” disse la donna con lo chignon.

“Sì, signora... Masterson,” rispose lei, leggendo il nome dal badge che la donna indossava.

“Ha studiato musica, signorina Edgecombe?”

“No. Ho... ho iniziato a suonare il pianoforte e a cantare da autodidatta. Sotto la supervisione di mio padre.”

“Suo padre è il signor Gregory Edgecombe, giusto?” le chiese l'altra, la signora Ashcroft.

“Sì, signora Ashcroft. E' curatore dell'orchestra Corpus Christi a Edimburgo.”

“Come mai non ha mai frequentato una scuola di musica, signorina Edgecombe?”

“Mio padre non ha mai voluto. Diceva che certe scuole non riescono a tirare fuori il talento di una persona, ma lo uccidono.”

“E lei condivide le sue idee, signorina Edgecombe?” chiese la signora Ashcroft, allungandosi impercettibilmente verso di lei. Lillian si sentì studiata, sotto esame, come se le stessero chiedendo di rispondere ad una domanda sulla campagna in Egitto di Napoleone.

“Non lo so, signora Ashcroft. Non le ho frequentate. L'unica cosa che so è che posso suonare un pianoforte eseguendo senza troppi errori, non stecco e non canto in falsetto, ma non so spingere la mia voce verso toni troppo alti,” rispose Lillian.

Le due donne si scambiarono una occhiata fugace. “Prego, si accomodi pure al pianoforte, allora.”

“Cosa... volete che suoni?”

“Lei cosa suonerebbe?”

“Io...” Lillian sorrise. “Il mio cavallo di battaglia è sempre stato Because the Night. Mio padre mi ha insegnato a riarrangiarla per pianoforte, e mi ci esercito sempre quando mi sento giù. Non è Bach, lo so, ma...”

“Curioso,” disse la signora Masterson. “Può... può provare ad eseguirla. A patto che a questo pezzo segua qualcosa di più... canonico.”

Il volto di Lillian si illuminò. “Sì, signora Masterson. Molto volentieri, la ringrazio...”

“Prego, il pianoforte,” tagliò corto l'altra.

“Sì, subito,” balbettò Lillian, sedendosi al pianoforte. Prima di iniziare a suonare chiuse per qualche attimo gli occhi, provò i tasti, adattandosi a quello strumento. Poi iniziò.

“Papà! Papà!” Lillian non riusciva a contenersi. Camminava a passo rapido lungo la strada, correndo verso HMV, mentre parlava al suo cellulare.

“Lilly, dove sei?”

“Sono appena uscita!”

Sentì suo padre ridere di cuore dall'altra parte della cornetta. “Direi che è stato un successo, piccola, dalla tua voce!”

“Sì, sì, sì, sì!”

“Raccontami, sono tutto tuo.”

“Ma tu non devi...”

“Oh, l'orchestra aspetterà qualche minuto. Ora devo sentire del successo della mia bambina.”

“E' andata be-nis-si-mo! Ti conoscevano, hanno chiesto subito di te e del perché non avessi mai fatto una scuola di musica...”

“Non gli avrai detto mica...”

“Sì, gliel'ho detto.”

“Amore mio, hai corso un grosso rischio, lo sai? Avrebbero potuto segarti le gambe.”

“Lo so, papà, ma stavolta ho seguito la mia testa ed è andata benissimo. Gli ho detto che non sapevo se fosse vero o no, ma che comunque sapevo suonare senza sbagliare troppo e cantare senza andare in falsetto, e a loro è andata benissimo.”

Suo padre rise ancora. “Sei stata anche troppo umile!”
“Non volevo sembrare... insomma, non volevo che pensassero che fossi un pallone gonfiato.”

“E cosa hai suonato?”

“Mi hanno lasciato suonare e cantare Because the Night!” rispose Lillian, con un saltello allegro.

“Davvero? E immagino che tu abbia fatto un figurone!”

“Non lo so. So che dopo mi hanno chiesto di suonare Bach, mi hanno stretto la mano, mi hanno fatto suonare Cage e mi hanno fatto firmare il contratto!”

“Sì! Brava la mia bimba, sono... sono orgoglioso di te, sono felicissimo...”

“Non piangere, papà... anzi, grazie, è stato tutto grazie a te.”
“Io non ho fatto nulla, Lilly. La responsabilità del tuo talento è tutta tua.”

“Ma adesso basta con le lacrime, i convenevoli e queste cose qui. Ora la tua bimba va a fare shopping: comprare qualche libro, DVD o qualcosa di musica prima di tornare a casa, spazzare e preparare il pranzo.”

“Aspetta, aspetta, ma il tuo primo incarico?”

“Non lo sanno ancora, ma mi richiameranno nel primo pomeriggio per informarmi. Entro stasera saprò qualcosa. Ora, papà, scusami, ma sono arrivata. Vado a sfogarmi.”

“Se mi avessero detto che per sfogarsi mia figlia sarebbe andata a comprare libri e musica invece di pasticcini e gelati non ci avrei mai creduto. Brava, Lilly, sono orgoglioso di te. Dopo lo dirò anche alla mamma, sarà felice.”
“Ti voglio bene, papà.”

“Anche io.”
“Ciao!”

Lillian chiuse il suo cellulare, lo mise in tasca e si tuffò nel negozio. Ne uscì con una copia di un album dei Jethro Tull e il DVD del quarto episodio di “Die Hard.”

Quel pomeriggio stesso, il cielo si era aperto, mostrando il suo azzurro. Lillian aveva tolto fascia e guanti, che aveva riposto nella tasca del suo parka, che ora teneva ben ripiegato su un braccio mentre suonava alla porta del suo primo incarico, in un bel quartiere residenziale londinese. Aveva raccolto i capelli con un bastone e si era aggiustata gli occhiali sul muso; l'abito era lo stesso di quella mattina.

Aprì la porta ridipinta di fresco, ancora piena dell'odore della vernice bianca, un uomo alto, con indosso un completo di giacca e cravatta color grigio topo e una camicia bianca. Il volto era molto magro, quasi scavato, ed era alto quasi quanto la porta. Lillian arrivava appena al suo petto.

L'uomo la guardò incuriosito, passandosi una mano fra i cortissimi capelli brizzolati. “Sì?” chiese infine.

“Salve, signor Matheson. Il mio nome è Lillian Edgecombe, sono la nuova istruttrice di pianoforte di suo figlio Ivan.”

“Ah, bene, signorina Edgecombe, prego, entri pure,” disse l'uomo, facendole largo e invitandola ad entrare. Mentre parlava finiva di abbottonarsi la giacca. “La prego di scusarmi per le mie condizioni, sono in terribile ritardo ma Ivan è ancora in camera sua e non poteva scendere per aprirle la porta.”

“No, non si preoccupi, signor Matheson,” disse Lillian, osservando l'interno della villetta, arredato con mobili apparentemente lucidati da poco, un grosso lampadario da soffitto con cristalli pendenti in sala da pranzo, sei sedie ad un tavolo rotondo coperto da un centrotavola fatto a mano e una scalinata ampia e ben spolverata che portava al piano superiore.

“Mi deve ancora scusare per l'incomodo,” riprese il signor Matheson, che ricomparve subito sulla soglia con una ventiquattr'ore e un giaccone nero lungo fino alle caviglie. “Ma, come le ho già detto, sono purtroppo in ritardo e i miei colleghi mi attendono per una riunione di una certa importanza – lavoro presso un istituto bancario, questo è il mio biglietto da visita nel caso in cui ne abbia bisogno – quindi non ho il piacere di accompagnarla da Ivan, che spero si sia almeno cambiato, nel frattempo,” aggiunse, alzando il tono della voce per farsi sentire al piano superiore. “Spero che si trovi bene con lui. Dovreste essere coetanei, se non ho compreso male la sua età, signorina. Non esiti a punirlo, se necessario – io devo sopportarlo tutti i giorni, e capirei se lo trovasse indisponente. Arrivederci, signorina,” concluse, chiudendosi la porta alle spalle prima che Lillian potesse salutarlo.

“Mi ha ubriacato,” si disse la ragazza. Si voltò, si diresse verso le scale e salì con calma. Al piano superiore, un corridoio con un parapetto dava su quattro porte chiuse. Qualcuno fischiettava dietro una di esse, e Lillian vi si diresse, bussando. “Il signor Ivan Matheson?”

“Entri pure.”

Lillian entrò.

Un poster dei Queen sopra la testata del letto, lenzuola blu scure con decorazioni marinare ai bordi, un piccolo pianoforte accanto ad una finestra che dava su un giardino, un grosso armadio bianco con bordi azzurro cielo, il soffitto dipinto di verde con un semplice lampadario, qualche mensola con dei libri e CD, una scrivania con un computer vicino al letto. Questa era la stanza di Ivan, sufficientemente ordinata, e lui era seduto alla scrivania a scribacchiare su un quaderno. Al suo ingresso, aveva alzato la testa e l'aveva accolta con un sorriso. Aveva i capelli corti e gli occhi castani di suo padre, ma di corporatura era decisamente più muscoloso. “Tu devi essere... Lillian, giusto?”

“Sì, signor Matheson.”

Ivan fece un cenno con la mano. “Dai, siamo coetanei, no? Ho visto la tua scheda, me l'ha data l'istituto, non c'è bisogno di... darci del lei.”
Lei sorrise. “Sì, hai ragione.”

“Siediti,” le disse, indicandole il letto. “Il tempo di mettere via questi appunti e sono da te.”

“Studi?” chiese Lillian, facendosi spazio sul letto per non schiacciarsi la corta coda.

“Più o meno. Sto cercando di entrare nella Marina Reale, ma per qualche motivo non sembrano essere ben disposti nei miei confronti. Mio padre vorrebbe che facessi qualche facoltà da “bel mondo,” ma a me non piacciono. Non sono mai stato portato per gli studi di quel tipo. Ecco fatto,” concluse, impilando due quaderni su due libri e voltandosi verso di lei, a cavalcioni sulla sedia, braccia ripiegate sullo schienale alto. “Allora, tu sei qui per farmi suonare, giusto?”

“A quanto pare, sì.”

“Io non ne ho voglia. Scusa se te lo dico, ma mi piace essere sincero. Ho sempre suonato, ho fatto scuole, corsi, eccetera, e al pianoforte con uno spartito ci so fare...”

“Ma senza spartito?”

“Qualcosa posso fare, sì,” rispose Ivan, dopo qualche attimo.

“Allora devi proprio suonare. Qual è il tuo gruppo preferito?”
“In questo momento sto riscoprendo i Queen,” disse Ivan, indicando il poster di Bohemian Rhapsody alle spalle di Lillian. “E il tuo?”

“Non ne ho uno. Ascolto quello che mi va sul momento. Un giorno musica folk, un altro qualche oscuro gruppo metal, un altro ancora sento il bisogno di qualche boy band... quello che capita, quello che mi fa stare meglio al momento.”

“Ma cosa c'è che ti fa scattare?”
“Guarda che sono io quella che deve fare domande a te,” rispose Lillian, che non voleva scendere nei dettagli.

“Lo so.”

“Stai procrastinando, te ne rendi conto?” gli fece notare lei, ridendo.

“Pienamente, lo sto facendo apposta.”

“Forza, allora, togliamoci il dente. Poi si chiacchiera.”

Lui alzò le mani, in segno di resa, si alzò e andò verso il pianoforte. “Sai, pensavo che mi avrebbero mandato l'ennesima educatrice barbosa, la solita vecchietta rompiscatole che vuole sempre saperne più di me e cose del genere. Non ti conosco ancora, e non mi aspettavo che... insomma, non voglio suonarti offensivo, ma non mi aspettavo di vedere una morfa.”
“Se la cosa ti può dar fastidio...”

“No, no, no, assolutamente! E' un bel cambiamento di programma. E poi piaci a mio padre.”
“Cioè?”

“E' stato lui a selezionarti.”

“Davvero?”

Ivan spiegò che l'istituto aveva sottoposto a suo padre una lista di tre persone come possibili istruttrici per lui, e il signor Matheson aveva scelto proprio lei. “Ha seguito i consigli delle direttrici, ovviamente, ma tutti puntavano su di te. Ha letto il tuo curriculum e le tue preferenze musicali e in quel momento ha deciso che saresti stata tu.”

“Aspetta ad esserne contento...” replicò Lillian, sorridendo. Stava arrossendo: come tutte le volte, benediva la pelliccia che le nascondeva le guance.

Quella sera, su Facebook:

Lillian scrive: Oggi vedete un raro esemplare di morfo felice: ho avuto il mio primo incarico! Sarò l'istruttrice di pianoforte di un ragazzo della mia età, qui a Londra. Ho già iniziato, e le cose sembrano girare bene: lui è simpatico, il padre a quanto sembra mi adora. Che la fortuna inizi a girare anche qui?

Jules scrive: Complimentoni! Ovviamente, domani offri tu? :)

Claire scrive: Ciao bella! Sono così felice per te! Te lo meriti proprio! Ho acceso una candela speciale per te questa notte.

Hermann scrive: Istruttice di un figlio di papà? Non me lo aspettavo proprio! Bel colpo, Lilly! Stroncalo!

Kevin scrive: Sono felice per te, Lilly, ma stai attenta a girare per Londra. I giornali dicono che nei prossimi giorni potrebbero esserci delle ronde di quei dementi degli HRS.

Lillian scrive: Grazie, ragazzi! @Kevin: lo so, ma non mi fanno paura. Se sto chiusa in casa gli do ragione, e non se la meritano.

Kevin scrive: Va bene, hai ragione. Almeno, non uscire sola. Fallo per me, Lilly.

Claire scrive: Stai tranquillo, Kev, lei domani esce con me e Jules. Sai com'è, *deve* offrirci da bere!

0 commenti:

Posta un commento