domenica, marzo 13, 2011

Capitolo 20 – Lillian passa il Natale

“Vai a passare il Natale dai tuoi?” le chiese Mills, spegnendo la macchina.
“Sì. Ho già le valigie pronte da un paio di giorni.”
“Uau. Hai veramente fretta di andare su, eh?”
“No… be’, in fondo è vero: ho voglia di rivedere mamma e papà.”
Mills sorrise. “Da quanto non li incontri?”
“Oh, mesi, Mills. Mi mancano, lo ammetto.”
“E’ normale. Quando parti?”
“Ho diverse ore di treno da fare, quindi…”
“Perché non prendi l’aereo?”
“Mi… ho paura, Mills. Ho paura di volare.”
“Ah, ecco. Be’, non c’è nulla di male; però ti annoierai a morte, in treno, tutto quel tempo.”
“No, meno di quel che pensi. Fra sonnellini, letture e computer porterò con me tutto quello che mi serve per divertirmi un po’. Partirò domani mattina, comunque.”
“Allora è meglio che questo te lo dia subito,” disse Mills, infilando la mano nella giacca ed estraendone un piccolo pacco quadrato, sottile, rivestito con una carta da regalo color oro e legato con un elegante fiocco rosso. “Buon Natale, Lilly.”
“Mills!” esclamò lei, prendendo il pacco. “Oh, ma non dovevi… non ho fatto in tempo ad organizzare i regali per tutti voi…”
“Claire vuole organizzare un Natale fra di noi appena tornerai giù,” le disse Mills. “Quindi hai ancora qualche giorno.”
“Grazie, Mills,” gli rispose, abbracciandolo. “Per fortuna che esisti…”
“Faccio del mio meglio. Auguri, Lilly.”
“Ti voglio bene, pelosone.”
“Anche io, capellona. Mi raccomando, non mangiare troppo.”
“Oh, mi devo assolutamente contenere. Sono a dieta,” fece lei.
“A dieta? A Natale? Dì, da quando sei diventata masochista?”
Lillian rise. “Non sono masochista, Mills. Il vero impegno si vede nei momenti di difficoltà. Capirò che posso perdere peso solo quando vedrò di essere in grado di resistere ai dolci di mia madre.”
“Be’, in bocca al lupo, allora.”
“Crepi. E tu, vedi di non stare male o di farti del male, va bene?”
“Farò il possibile, ma non posso garantirti nulla.”
“E salutami tutti gli altri.”

Uscita dalla stazione, Lillian cercò con lo sguardo la Volvo blu notte di suo padre, l’auto di famiglia con cui i suoi si spostavano di solito. Prima ancora della vettura, riconobbe sua madre Annabel, in piedi accanto ad essa, che agitava una mano per farsi notare. Lillian la salutò, prese le sue valigie e si fece strada nel parcheggio per raggiungerli. Al di là dello smog, il profumo dei suoi familiari le instillò un senso di pace, di calma, che non aveva da giorni; era il profumo di casa, il profumo del suo rifugio preferito e delle sole persone che l’avessero sempre apprezzata per ciò che era.
“Ciao, mamma!” esclamò, prima di abbracciarla. Annabel Edgecombe era una snella signora sulla cinquantina, i capelli mori tenuti lunghi fino alla gola, occhiali e qualche ruga sul volto. Oltre ai capelli, condivideva con  la figlia la statura e il colore degli occhi. Indossava una maglia scura, lunga fino a metà coscia, ma nessuna giacca  o altro abito pesante, nonostante la bassa temperatura. Lillian le porse le valigie. “Ma non hai freddo, mamma?”
“Oh, cosa vuoi, ormai ci siamo abituati. Sei tu la cittadina, ormai! Non vuoi spogliarti un po’? In macchina farà veramente caldo.”
“Meglio farlo dentro,” disse, aiutando Annabel a caricare le sue cose nel bagagliaio posteriore, già piuttosto ingombro per ciò che i suoi genitori si erano portati da casa. “Come al solito vedo che vi siete portati dietro mezza casa. Quanti giorni staremo dal nonno?”
“Oh, tre o quattro, non di più,” fece la donna, aprendo la portiera del lato passeggero. “Tu stai davanti,” disse.
“Io? Davanti?”
“Non è un taxi, tesoro!”
Lillian salì e si sedette.
“Ciao, tesoro,” la salutò il padre. Gregory Edgecombe era una figura imponente, anche seduto in macchina, con la sua barba scura folta ma curata e la sua stazza appesantita dal buon cibo della moglie. Indossava un maglione color paglia.
“Ciao, papà!”
“Direi che è il caso di partire; tu che ne dici, amore?” fece, rivolto ad Annabel, seduta sul sedile posteriore.
“Oh, per me si può andare in qualsiasi momento, tesori.”

Lillian si trovò spesso, durante il viaggio verso la casa del nonno, a digrignare inconsciamente i denti. Ogni volta si costringeva a rilassarsi, canticchiando e partecipando in modo più animato alle costanti conversazioni dei suoi genitori, ma soprattutto lasciando che il paesaggio esterno, che scorreva al di là del finestrino, la portasse con sé lungo le campagne, dimenticando per un attimo di essere diretti in quella che per lei era “la tana del lupo” ma focalizzandosi sul fatto che, dopotutto, avrebbe passato dei giorni in campagna, immersa nel nulla e contemporaneamente avvolta dall’amore dei suoi.
Era un break che non vedeva l’ora di prendersi: uno stop da tutto ciò che l’aveva resa ansiosa durante il periodo trascorso in città, un allontanarsi dai problemi per ricaricare le batterie e tornare poi ad affrontarli con la grinta necessaria. Ascoltando la voce di suo padre, guardando i suoi occhi saettare con attenzione fra la strada e lo specchietto retrovisore mentre Annabel parlava, ridendo alle battute di sua madre, si rese conto di quanto le fossero mancati, di quanto fosse loro ancora legata nonostante il principio di indipendenza che aveva iniziato da così poco tempo a vivere. Aveva ancora bisogno di loro, aveva ancora voglia di loro: voglia di un abbraccio, bisogno di un sorriso sincero, voglia delle loro voci, bisogno di sicurezza.
A tutto questo si aggiungeva la consapevolezza di stare andando verso qualcosa che la spaventava: come avrebbe reagito suo nonno? Come avrebbe reagito lei? Dovette ammettere che la prospettiva di sorbirsi le frecciate e i rimbrotti di Theobald Edgecombe era tutto fuorché rosea. L’aperto disprezzo che il vecchio le aveva sempre dimostrato le bruciava ancora dentro, la rendeva ansiosa e le faceva contare i chilometri che mancavano perché la Volvo venisse parcheggiata.
E, quando questo accadde, a sera ormai giunta, Lillian rimase per qualche secondo in silenzio ad osservare la villetta di campagna, con la sua veranda invasa dal muschio e dai rampicanti, l’abbaino della camera del vecchio al secondo piano, dalle imposte sempre chiuse, i tre gradini che conducevano all’ingresso, in legno sconnesso che scricchiolava sempre così tanto da dare l’impressione di doversi frantumare da un momento all’altro… Non c’era un solo dettaglio, in quella semidiroccata abitazione, che non aggiungesse disagio alla situazione.
La risvegliò il tocco di suo padre sulla spalla. “Lilly.”
Lei annuì. “Lo so, papà.”
“Vuoi che…”
“No,” l’interruppe, sapendo cosa stesse per dire. “Non voglio scappare. E non sentirti in colpa, papà: cercherò di essere forte,” disse, sforzandosi di sorridere.
Gregory la fissò per un lungo istante, con un’occhiata che le diede l’impressione di trapassarle la pelle e le ossa per arrivarle dritta nella mente. “Non mentire per la mia felicità, Lillian,” le disse.
La morfa sospirò. “Non sto… sì, papà, ca… cacchio, sto mentendo. Dio, ti odio quando fai così. Sì, non sopporto l’idea di stare dal nonno, non sopporto il modo in cui mi tratta e tutto quanto, ma capisco perfettamente il motivo per cui siamo qui e non altrove e capisco anche che non posso passare la mia vita a scappare da questo tipo di situazioni. Non posso rimanere sempre nella mia stanzetta, anche se… anche se mi piacerebbe un sacco. Devo crescere.”
Le braccia di sua madre si allungarono dal sedile posteriore, cercando di avvolgerla in un abbraccio. “Brava, cucciola, brava,” le disse. “E noi saremo sempre qui, pronti ad aiutarti quando ne sentirai il bisogno.”
“Ora andiamo, mamma. Papà. Non voglio… rimanere qui più a lungo del dovuto.”
“Va bene,” fece Gregory, slacciandosi la cintura. “Pronti, allora.”
Trovarono l’uomo seduto nel soggiorno, davanti al camino acceso, unica luce nella stanza; dietro di lui, un grande abete scarsamente addobbato costituiva l’unica decorazione natalizia nell’intero edificio, e di certo non riusciva a contribuire al clima. Lillian ebbe l’impressione che Theobald si fosse raggrinzito, dall’ultima visita: il volto era una mappa di rughe che, ne era sicura, non erano così evidenti, l’ultima volta, e il corpo era così magro da fare quasi paura. I pochi capelli che rimanevano sul cranio dell’uomo, perfettamente tondo come una bella mela matura, avevano un aspetto fragile, come se fossero sul punto di cadere. Ma quegli occhi, scuri e intensi come i suoi, avevano una forza e una solidità che non avevano nulla a che fare con il resto del corpo.
“Ciao, papà. Siamo arrivati,” lo salutò Gregory, lentamente e senza alcuna allegria.
“Ho visto, figliolo. Ho ben visto. Salve, Annabel,” disse, alzandosi con fatica e lasciando sul bracciolo del sofa il piccolo libro che stava leggendo. “Salve,” disse quindi, rivolto a Lillian. A tutti e tre aveva rivolto la medesima espressione di disgusto e disprezzo, le folte sopracciglia aggrottate, le labbra strette.
“Ciao, nonno,” lo salutò Lillian, sforzandosi di sembrare più vivace di suo padre. Ma l’uomo non diede segno di averla notata, e si diresse piuttosto verso Gregory. Per un attimo, il confronto fra la stazza del padre e le dimensioni minute del nonno le strappò un sorriso.
“Le vostre stanze sono di sopra,” disse Theobald.
“Come mai non hai acceso nessuna luce, papà?”
“Non… Una delle lampade del soggiorno si è fulminata. Ma è troppo in alto: con la schiena a pezzi che ho oggi non riuscirei mai a raggiungerla. Così ho acceso il camino. Ma le altre funzionano. Come al solito, hai paura che non riesca ad arrivare alla fine del mese, vero? O forse ci speri, Gregory?”
L’uomo sbuffò. “No, papà, non ci spero. Ma a volte ho paura, sì, che tu non ce la faccia.”
“Lilly, hai voglia di darmi una mano con le valigie?” le chiese Annabel. La tasso annuì, prendendo le proprie e accompagnando sua madre al piano di sopra. “Quei due si metteranno a litigare entro breve, immagino,” fece poi, aprendo la porta della stanza di Lillian. “Meglio stargli lontani per un po’, che ne dici?”
“D’accordo,” disse la figlia, portando all’interno le proprie valige.
La stanza che le toccava ogni anno era piuttosto piccola, con una finestra ad abbaino che dava sulla campagna aperta, un armadio modesto, una scrivania con un grande specchio e un letto dalla struttura in ferro battuto. La lampadina appesa al soffitto era priva di alcun riparo, e dondolava sopra la testa di Lillian ad ogni spostamento d’aria. C’era uno spesso strato di polvere su ogni mobile, compreso il letto; la ragazza storse il naso al pensiero di doverci dormire. Si tolse la giacca, si tirò su le maniche e tolse le vecchie coperte che il nonno insisteva ad utilizzare, aprendo poi la finestra per cambiare aria e far mulinare fuori la polvere. Tossì, cercando di non inspirarla, mentre scuoteva le coperte prima di piegarle e riporle nell’armadio. Da uno dei suoi bagagli estrasse quindi il suo personale set di coperte e lenzuola, preparato per l’occasione, decorata con un motivo a onde rosa e bianche che rendeva la stanza più allegra e femminile.
Dopo aver disfatto le valigie, andò allo specchio, attratta da uno scintillio. Una grande crepa si era allargata dal lato superiore fino a raggiungere l’angolo inferiore destro, tagliando in due la superficie. Cercò di capire cosa vedesse suo nonno nell’immagine, cosa ci fosse di così sbagliato. Con un certo stupore, si rese conto che non c’era nulla di sbagliato, in ciò che vedeva: con stupore, perché aveva sempre visto cose che in un modo o nell’altro le erano spiacevoli nel suo riflesso, dettagli grandi e piccoli che avrebbe voluto cambiare ma che ora non costituivano un problema.
Sorrise, il cuore che batteva forte, rendendosi conto di aver fatto un passo importante nell’accettarsi. Ora, il vero problema non era più costituito da lei, ma dagli altri.

Come ogni Natale, suo padre preparò per la cena del tacchino arrosto, facendosi aiutare dal nonno, pur di tenerlo lontano dalla figlia. Si sedettero a tavola e iniziarono a mangiare, di tanto in tanto tentando di parlare. Il vecchio non dette segno di godersi la loro presenza, anzi: le occhiate che spesso e volentieri lanciava alla morfa appena questa cercasse di parlare mostravano tutto l’astio che covava nei suoi confronti. Fu con una certa gioia che Lillian accolse la proposta di sua madre di recarsi alla messa di mezzanotte, allontanandosi dalla villa. Per la durata della funzione, Lillian ebbe modo di concentrarsi sui canti e sul Natale in generale, sul senso della festa e sulla felicità che lo stare lontana da Theobald le faceva provare.
Avrebbe voluto dirlo a suo padre, raccontargli tutto, ma sapeva che, se lo avesse fatto, lui avrebbe convinto tutti a ripartire per tornare indietro, per tornare a casa e tenerla lontana dai problemi, come spesso aveva fatto in passato. Ma, come lei aveva già ribadito, non aveva voglia di scappare, non aveva voglia di allontanarsi dai problemi come al solito per non soffrire: avrebbe dovuto superarli, piuttosto, e voleva a tutti i costi farlo, pur sapendo che non sarebbe stato affatto facile per lei.
Al ritorno in casa, si recò subito in stanza, cercando di addormentarsi. Invano. Aggirandosi per la casa in punta di piedi, per il timore di svegliare qualcuno, Lillian si diresse in cucina: un bel bicchiere d’acqua l’avrebbe fatta stare sicuramente meglio e l’avrebbe aiutata ad addormentarsi.
Trovò la porta della cucina socchiusa, la luce all’interno accesa. Le giunsero le voci del padre e del nonno, voci alte e concitate. La morfa si accostò alla porta, sbirciando all’interno. La figura di suo padre era ben visibile dalla fessura lasciata dalla porta, in piedi presso il tavolo.
“…di parlare in questo modo di lei,” disse Gregory Edgecombe. “E’ chiaro, papà?”
“Questa è casa mia, Gregory,” rispose l’altro. “E qui sono io il padrone. Mi aspetto che i miei ospiti mi lascino comportarmi come voglio.”
“Da quando i membri della tua famiglia sono considerati al pari di ospiti qualsiasi?”
“Tu e tua moglie siete i benvenuti, qui,” disse il vecchio.
“Chissà come mai non hai anche menzionato mia figlia, che si dà il caso essere tua nipote.”
“Non è un caso, infatti. Lei non è la benvenuta, qui. Lo sapete tu, lei e Annabel.”
Gregory batté un pugno sul tavolo. “Ne ho abbastanza del tuo atteggiamento, papà. Noi siamo venuti qui solo per te, per evitare di… di farti passare un Natale in totale solitudine, tu e la tua maledetta cattiveria, e con cosa ci ripaghi? Trattando mia figlia come… come un nulla! Sei uno stronzo!”
“Bada a come parli, ragazzo. Lei non è mia nipote, anche se magari per te può essere tua figlia. Mia nipote avrebbe dovuto essere umana, non… una di quelli.”
“E invece non lo è, fattene una ragione. Non lo è da ventisette anni e non lo sarà mai, ma per tua informazione è la persona più splendida del mondo, nonostante non sia umana. Se a te questo non basta…” disse Gregory, interrotto dal rumore dei passi affrettati di Lillian, che si allontanava di corsa dalla porta.

Fuori dalla minuscola casa di campagna, il cielo natalizio era terso, pulito, e la tasso poteva contare chiaramente ogni stella, avvolta nella sua giacca. Si era costretta a non piangere, ricacciando indietro con rabbia ogni lacrima che si affacciava ai suoi occhi.
La porta della casa si aprì, facendo uscire Gregory. Con sé aveva due tazze piene di tè scuro e fumante. “Immaginavo di trovarti qui. Ti ho fatto del tè,” disse, accostandosi a lei e porgendole la sua. “Hai sentito tutto, vero?”
Lillian annuì, scaldandosi le mani al tepore della tazza.
“Da quando la mia bambina origlia?”
“E’ la prima e l’ultima volta che lo faccio. A volte la curiosità… fa male.”
L’uomo sospirò. “Cucciola, mi… mi dispiace. Vorrei non averti mai trascinato qui. Scusami.”
“Non mi ci hai trascinato tu, papà. Sono venuta io. Avrei potuto fare a meno di venire: dopotutto, ho sempre saputo che qui non sono la benvenuta. Non c’era bisogno che me lo ricordasse lui.” Lillian guardò suo padre. “Non riesce proprio ad accettare la cosa…”
“Non lo ha mai fatto, Lilly, e non so se lo farà mai. Quando le persone invecchiano, cambiano idea molto più difficilmente sulle cose.”
La tasso scosse la testa, bevendo quindi un sorso di tè. “Perché mi odia?”
“Perché non sei umana.”
Lillian tirò su col naso. “Questo lo so. Ma perché… perché odia i morfi?”
“Per lo stesso, stupido motivo per cui, da giovane, era entrato a far parte del Partito Fascista,” rispose suo padre. “Alcune persone non sopportano l’idea che ci siano in giro altri diversi da loro per razza, sesso o religione, perché hanno la bizzarra convinzione che solo quelli come loro siano degni di andare in giro,” disse. “E il nonno è uno di questi.”
“Sei buono, generoso… cattolico… voti laburista… sei sicuro di essere suo figlio?” chiese Lillian.
Suo padre rise. “A volte ho i miei dubbi, è vero. Forse un test di paternità aiuterebbe a capire molte cose, vero bimba?” Gregory l’avvolse in un abbraccio, facendo attenzione a non rovesciarle addosso il tè. “Tu, invece, sei orgogliosamente figlia mia.”
Lillian posò la tazza sulla ringhiera della veranda e si accucciò su suo padre.“Grazie di esistere,”
“Quando eri cucciola ti accoccolavi così su tua madre,” fece lui. “Ti ricordi?”
Lillian annuì. “Mamma era comoda, profumata e mi faceva sentire al sicuro quando tutti mi guardavano male. Non me lo posso scordare. E’ da lei che devo aver ereditato qualcosa sul mio fisico,” commentò.
“Oh, dopo il parto tua madre era… molto più comoda di come te la ricordi tu,” disse Gregory, sottovoce. “Ha impiegato un sacco di tempo per perdere peso, sai.”
“Ora è proprio una bella donna. Hai una bella moglie, papà.”
“Lo è sempre stata, e lo sei anche tu. Sì, sono fortunato, lo ammetto.”
“C’è qualcosa che posso fare per far capire al nonno che anche io valgo qualcosa, secondo te?” chiese la morfa, allontanandosi dall’abbraccio del padre.
“Ne senti così tanto il bisogno?” rispose Gregory.
“Diciamo che non mi dispiacerebbe cambiare un po’ le cose,” disse lei.
“Qualcosa c’è, secondo me.”

Gli Edgecombe al completo erano seduti attorno al tavolo, nella piccola cucina della casa. Nell’aria aleggiavano gli aromi di ciò che Gregory e Annabel avevano preparato per il pranzo, mentre Lillian si occupava di rassettare gli ambienti, un po’ per starsene lontana dal vecchio Theobald, un po’ per concentrarsi su ciò che suo padre le aveva suggerito la sera prima.
Il pranzo si era svolto in relativa pace. La morfa non aveva mai rivolto paura al vecchio, limitandosi a scambiare poche battute con i suoi genitori. Era sicura che Theobald avesse notato il suo atteggiamento, e spesso si era sentita le sue occhiate di fuoco sulla pelliccia. Stranamente, però, l’uomo non aveva mai lanciato alcuna frecciatina contro di lei, come suo solito.
“Bene,” disse ad un tratto Gregory, a conclusione del pasto. “Papà, in teoria questo dovrebbe essere il momento di scambiarsi regali, come abbiamo sempre fatto. Ma quest’anno abbiamo deciso di non portarne, per diversi motivi. Tu sei un uomo burbero, quando non addirittura scontroso, ma io ti voglio bene… Ed è per questo che abbiamo deciso di venire a tenerti compagnia, quest’anno, immaginando che, almeno a Natale, avessi piacere nello stare con noi. Persino Lillian ha accettato di venire,” aggiunse. “Nonostante non sia una stupida e sappia che tu la odi.”
L’uomo non diede segno di reagire alle parole del figlio, limitandosi a spostare lentamente lo sguardo da Gregory ad Annabel e infine su Lillian. Quest’ultima si alzò in piedi e si recò in camera sua, prese un piccolo pacco quadrato e tornò in cucina.
Lillian porse l’involto al vecchio, che prima gli rivolse un’occhiata perplessa, poi lo prese e si voltò verso la morfa, rimandendo in silenzio. “Lo so che mi odi. Non hai mai potuto sopportare il fatto che tua nipote non fosse un essere umano come te, per quanto a volte anche io faccia fatica a considerarti umano come papà. Mi chiedo persino se tu possa davvero essere suo padre e mio nonno. Ma papà è buono, e su una cosa ha ragione: è Natale, e non è giusto che tu lo passi solo con il tuo odio,” disse, sentendo chiaramente suo padre trattenere il respiro per un attimo. Lo sguardo del vecchio si indurì, le sopracciglia si incresparono. “Ma sono tua nipote, non sono lo scarto del mondo. Anche se sono una morfa. Sono su questo mondo da ventisette anni, ed è ora che tu accetti la cosa; non chiedo che te la faccia piacere, solo che ti limiti ad accettarla. E per aiutarti in questo, visto che forse sono troppo buona anche io, questo è il mio regalo per te.”
Il vecchio scartò il pacco, le mani tremanti. All’interno, un CD senza alcuna etichetta, in una custodia di plastica trasparente. L’uomo se lo rigirò fra le mani per qualche istante, ancora perplesso.
“So che hai un bell’impianto stereo da cui ti ascolti le canzoni dei bei tempi andati, quindi non fare finta di non capire cosa sia, perché non ci casco,” fece Lillian. “Mi hanno regalato quel CD pochi giorni fa: è la registrazione del mio primo concerto, fatto proprio questo mese.” Gli occhi del vecchio si illuminarono, sentendo nominare un concerto. “Io sono la prima voce, e mi sentirai immediatamente. Bada, nonno: per me quella registrazione è un pezzo della mia vita. Mi ricorda quel che sono e quel che so fare, perché so fare qualcosa di molto bello anche se non sono umana, per quanto la cosa possa non farti piacere. Te lo regalo proprio perché tu possa capirlo, una volta per tutte.”

“Ottimo lavoro, tesoro,” le disse Gregory, sulla veranda, dopo che il vecchio Theobald si fu coricato per il riposino pomeridiano. “Credo che tu abbia colpito nel segno.”
“Davvero?” chiese Lillian. “Cosa te lo fa pensare? Non mi sembra una persona in grado di cambiare idea…”
“Certe cose sono genetiche, Lilly. La passione per la musica evidentemente lo è per noi Edgecombe. Nonno Theobald non sa suonare, e ha sempre avuto una grande passione e ammirazione per chiunque avesse una competenza in tal senso. Non ci crederai, vedendolo adesso così, ma non hai idea di quanto mi abbia spronato a coltivare le mie capacità e le mie… inclinazioni musicali, a dispetto di tutto e di tutti. Lui sapeva che io avrei potuto essere qualcuno e avere un futuro, e mi ha sempre indirizzato nel miglior modo possibile.”
“Questo prima di mangiare la mela avvelenata,” commentò Lillian.
Gregory rise. “No, quella la deve aver mangiata da piccolo, temo. No, fidati: il nonno ascolterà subito il tuo CD e sicuramente la cosa lo colpirà.” Si voltò verso di lei, sorridendo. “E così, ti hanno fatto un bootleg,” commentò poi.
“Be’, non è proprio un bootleg, ecco.”
“E perché?”
“Perché i bootleg in genere non sono autorizzati. Questa… è la registrazione del concerto fatta da Claire, quindi è ben più che autorizzata.”
“Io lo considererei tale lo stesso. Sai come si dice? Che non sei famoso finché non ti fanno un bootleg.”
Lillian sorrise. “Quindi sono famosa?”
“A me non interessa. Famosa o no, tu sei la mia Lilly, e a me va più che bene. Piuttosto, vogliamo parlare del tuo concerto, tesoro?”
“Eri lì!” esclamò la morfa.
“Sì, ti ho anche scritto, non ricordi?”
“Sì,” disse Lillian, togliendosi gli occhiali per pulirne le lenti. “E’ che… non me lo aspettavo. Tu sei sempre così impegnato, non hai sempre tempo per le mie cose… e poi è un bel viaggio, da qui a Londra.”
“Per te questo ed altro. E devo dire che meritava il viaggio.”
“Non me lo dici per farmi contenta, vero? Non mentire, ti prego…”
L’uomo scosse la testa. “Per niente. Sono direttore di un coro, parlo da professionista. Voglio sperare che tu abbia tenuto una copia di quel CD per te: la mamma vorrebbe proprio sentirlo.”
Lillian annuì. “Ho scaricato tutto sul computer, mentre ero in viaggio.”

Lillian si trovava in cucina, ai fornelli, davanti al bollitore del tè. Aveva appena acceso il fuoco, quando udì i passi di sua madre avvicinarsi alla porta. “Sono qui, mamma,” disse, immaginando che la stesse cercando.
Annabel aprì la porta, facendo capolino con la testa. “Ti disturbo, tesoro?”
“Certo che no, mamma,” replicò la morfa. “Sto facendo del tè. Ne vuoi un po’?”
“No, Lilly, grazie,” disse. “Volevo farti vedere questo, però,” fece poi, appoggiando un grosso libro rilegato in pelle color castagna sul tavolo. “Ora che i maschi sono andati a caccia, le donne possono starsene a fare due chiacchiere fra di loro.”
La morfa si allontanò dai fornelli, incuriosita. “Cos’è?” chiese, mentre la donna apriva il libro, mostrandole pagine ingiallite piene di fotografie.
“Questo è un… album fotografico che io e papà abbiamo gestito da quando sei nata… anzi, da prima ancora, direi,” disse Annabel, indicando tre foto nella prima pagina che la ritraevano in diversi stadi della gravidanza, con un pancione sempre più evidente e sempre con un gran sorriso sincero sul volto. “Sì, ero decisamente ingrassata in quel periodo. Mangiavo così tanto… Ecco, questa invece è la mia cucciola appena nata,” disse, voltando pagina. Al centro del foglio, incorniciata da una serie di intricati motivi celtici realizzati con un pennarello nero, c’era una fotografia che raffigurava un musetto coperto di pelliccia arruffata, gli occhi gonfi e chiusi e le zampe rilassate, posate sul petto. “Eri così bella…”
“Cosa… dicevano gli altri?”
“Oh, c’era un gran via vai di medici. Sai, la questione dei morfi ha iniziato ad emergere in Gennaio, quindi dopo due mesi se ne faceva un gran parlare, tesoro. Tu eri la prima… no, la terza morfa nata ad Edimburgo, quindi avevi gli occhi di tutti puntati addosso.” La donna sospirò. “Ti ho vista così poco, in quel periodo. Per una settimana sei stata più fra le mani dei medici che in braccio a me. Mi sentivo morire: non capivo cosa stessa succedendo, non capivo bene perché mia figlia mi stesse lontana, anche se i medici continuavano a dirmi che eri sana come un pesciolino.”
“Non ti sei mai chiesta perché… perché io fossi una morfa, ecco. Perché non sono nata come te e papà.”
“Mai, neanche una volta,” rispose Annabel. “Non mi interessava. Ti ho portata con me tutto il tempo per nove mesi quasi esatti, Lilly, cosa vuoi che me ne importasse di come saresti nata? Eri sana e per me eri bellissima, questo mi bastava. Eri la mia piccolina, e nessuno mi permetteva di avvicinarmi a te. Così, un giorno, mi sono alzata dal letto e ho seguito uno dei medici fin dentro la stanza in cui ti tenevano, ti ho presa dalla tua culla… stavi piangendo a dirotto, povera cucciola… e ti ho riportato indietro. Hanno cercato di fermarmi in ogni modo, ma poi hanno desistito. Ti tenevo così stretta che ho sempre avuto paura di farti soffocare, ma tu eri così silenziosa e calma quando eri in braccio a me da farmi capire che stavo facendo esattamente la cosa giusta.  Ti riportata a letto con me, e da quel momento non ti ho più lasciato andare.” Annabel girò la pagina, mostrando altre foto. Una ritraeva la piccola Lillian, poco più di un fagotto tutto imbacuccato dal cui cappuccio uscivano un musino tutto nero e alcune ciocche di ricci neri, sorridere al fianco di un pupazzo di neve grande il doppio di lei; un’altra la mostrava, ancora più piccola, nuda su una spiaggia, le manine unghiute protese verso la macchina fotografica, capelli corti e bagnati sulla testa e una serie di piccole impronte dietro di lei; un’altra ancora, invece, la ritraeva con uno zainetto, gli occhi spalancati e pieni di paura, mano nella mano con suo padre. “Il tuo primo giorno di scuola per me è stato un giorno di ansia totale.”
“Anche per me,” disse Lillian. “Non mi hanno mai staccato gli occhi di dosso.”
“Lo so, cucciola. Lo so. Sono stata tutto il tempo fuori dalla scuola. Mi sono presa un giorno di permesso per poterti stare vicino. Avevo il terrore all’idea di cosa… sarebbe potuto accadere nella tua classe, visto che eri l’unica morfa: come ti avrebbero trattato i compagni? E le maestre? E… Mi-mille insicurezze, tutte cose che non riuscivo a sopportare, a capire, ad accettare…” Annabel sospirò. “Per i primi anni della tua scuola sono stata in costante apprensione, sempre ansiosa. Se tuo padre non fosse stato quel santo che è, mi avrebbe sicuramente lasciato. Ho perso dieci chili in due mesi, all’inizio del tuo primo anno.”
“Dovrei farlo anche io,” commentò Lillian, per smorzare la tensione.
“Smettila, tesoro, stai benissimo.”
“Lo sai che non è vero, mamma. Guarda qua: questa è una XL, e ci sto stretta.”
“Oh, per quelle cose basta una dieta, tesoro, fidati. Ti auguro di non passare mai quello che ho vissuto io per colpa di tutte quelle persone…”
Madre e figlia trascorsero molto tempo a controllare quelle foto. Ad ogni pagina, un dettaglio della sua vita passata arricchiva Lillian: un taglio di capelli particolarmente azzardato nell’adolescenza, un problema con un amico, un compleanno, un viaggio… Lillian rivedeva se stessa e riviveva un’emozione ogni volta diversa, accompagnata dal racconto di Annabel su come questo o quell’evento l’avesse fatta sentire. Per quanto il loro rapporto fosse sempre stato ottimo, solo in quel momento la morfa si rese conto di quante cose non si fossero mai raccontate, quanto non si fossero mai realmente conosciute. Le loro vite erano sempre state separate, non c’era mai stata nessuna osmosi di quel tipo, nessun confronto che avesse aiutato entrambe ad avvicinarsi.
La donna chiuse l’album e lo porse a Lillian. “E questo è il regalo di Natale per te. Da mamma e papà.”
“E io invece sono una figlia orribile: non vi ho fatto nulla, quest’anno,” replicò la ragazza. “Se vi può consolare, non ho pensato a regali per nessuno.”
Annabel sorrise. “Sei stata così presa per mille cose, tesoro: le ripetizioni, il concerto…”
“Ma ho avuto del tempo libero… solo che…”
“Tesoro, a volte succede. L’importante, a Natale, non è il regalo, ma l’essere felici insieme, non credi?
“Sì, lo so, mamma, ma ammetterai che ricevere un regalo, o darlo e godersi la felicità di quello che lo riceve, è sempre bello.”
“Lo so, tesoro, ma…”
“Siamo arrivati,” tuonò la voce di Gregory dall’ingresso.
“…ne riparliamo in macchina, Lilly. Ora dobbiamo prepararci, così possiamo ripartire dopo pranzo.”
Lillian abbracciò sua madre.

“Lillian? Hai preso tutto?” le chiese suo padre, dall’ingresso. “Noi ci siamo, tesoro.”
“Arrivo!” esclamò lei, sbarrando le imposte. Le sue valigie erano già nel corridoio, pronte per accompagnarla nuovamente verso casa. Ammise di non vedere l’ora di tornare a Londra: certo, lontano dai suoi genitori, ma ancor più lontano dal nonno e da tutto ciò che per lei significava.
“Ti aspettiamo in macchina,” concluse suo padre.
La morfa chiuse la porta della stanza, afferrò i bagagli e iniziò a trascinarli verso l’uscita. Prima di varcare la soglia, però, si voltò verso il soggiorno, cercando il vecchio con lo sguardo. L’uomo era seduto sul suo divano, e la stava osservando a sua volta. C’era meno durezza nel suo sguardo, in quel momento; non poté dirsene certa, ma ebbe l’impressione che, almeno in parte, fosse stata sostituita da curiosità, come se l’uomo si fosse accorto solo in quel momento, dopo anni, della sua esistenza.
“Hai una bella voce, quando canti,” le disse, provocandole un tuffo al cuore.
“Grazie, nonno,” rispose lei. Non seppe se aggiungere altro, mentre fra i due calava il silenzio.
“Hai… canterai ancora?”
“Sì,” fece Lillian.
L’uomo distolse lo sguardo, annuendo. “Buon anno,” le augurò, dopo alcuni secondi.
Lei alzò la mano, agitandola per salutarlo. “Anche a te,” disse, a voce bassa, e uscì mordendosi le labbra. Ai piedi della breve scalinata sentì la porta chiudersi alle sue spalle.
“Ci sei, tesoro?” le chiese sua madre. “Sei pronta?”
“Sì, mamma,” fece lei, scuotendo la testa, cercando di allontanare il pensiero di suo nonno che, dopo ventisette anni, le aveva per la prima volta nella sua vita augurato qualcosa di buono. Le aveva persino fatto i complimenti! Non sapeva se sentirsi grata o semplicemente soddisfatta della cosa: finalmente, il vecchio balordo l’aveva riconosciuta, o aveva quantomeno riconosciuto che sua nipote aveva un valore.
Come nel viaggio precedente, Lillian sedette al lato passeggero, a fianco di Gregory. “Lilly, perché non fai sentire anche a tua madre il tuo concerto?” le propose.
“Giusto. Non capisco perché lo debbano poter sentire solo i maschi di questa famiglia, dopotutto,” fece Annabel.
“Lo immaginavo,” disse la ragazza, sorridendo. Aprì lo zaino e ne estrasse il CD che aveva creato quella sera stessa, seguendo il consiglio del padre. “Fresco fresco di masterizzatore,” commentò, inserendolo nell’impianto dell’auto.

0 commenti:

Posta un commento