giovedì, agosto 04, 2011

Capitolo 44 – Lillian aiuta un’amica

La lezione mattutina con Gregory l’aveva spossata. Era inutile: quel ragazzo non voleva saperne di imparare qualcosa sulla musica, tantomeno sul pianoforte. Se gli avesse insegnato a suonare la chitarra elettrica, o le percussioni, probabilmente avrebbe riscosso più successo, ma non c’era verso di indurlo a memorizzare più di qualche porzione di brano. E senza che i suoi si mettessero di mezzo, peraltro.
Seduta in metropolitana, in attesa del treno successivo, si limitava a fissare in modo vacuo il vuoto, lasciando che la mente vagasse. Percepiva il cervello distendersi, rilassarsi.
Il trillo del telefono le provocò una fitta alla testa. Lo estrasse con mala grazia dallo zaino e rispose alla telefonata.
“Lilly? Lilly, sono Claire, mi senti?” le chiese l’amica, prima ancora che lei potesse parlare.
“Sì, Claire, certo che ti sento,” disse la morfa, chiudendosi un orecchio per non essere distratta dal rumore della metro in arrivo. “Sei agitatissima, dimmi tutto. Ci sono problemi?”
“Hai indovinato, e di quelli grossi.”
“Ti ascolto.”
“Il padre di Jules è ricoverato in ospedale,” disse la tigre, con voce tremante.
La notizia la colpì come uno schiaffo. “Eh? Di cosa? Perché si è ricoverato? E dove?”
“Non so, non ho capito bene… Gli hanno diagnosticato una malattia, una cosa ereditaria, ce l’aveva anche suo padre ed è una cosa che ti fa impazzire, dicono…”
“Oddio… ha la corea?”
“Eh?”
“La corea di Huntington, è una malattia che… be’, provoca la demenza. E’ una cosa genetica ed ereditaria.”
“Sì, deve essere quella.”
“Cazzo…” imprecò, mentre il treno lasciava la fermata. “E Jules? Come sta?”
“Male, ovviamente.”
“Domanda scema. Ma come fai a saperlo? Jules è uno che non racconta mai nulla a nessuno.”
“Jules con me parla,” disse la tigre. “Me lo ha detto mezz’ora fa. Ora sta andando là col padre.”
“Dove si è ricoverato?”
“In centro, c’è una clinica speciale…”
“Ma la corea non è curabile. Perché è lì?”
“Ha tentato il suicidio, Lilly,” esclamò Claire. “Vuole stare lontano da tutto e da tutti, dice Jules, e si è fatto rinchiudere lì.”
“Merda,” commentò la morfa, salendo sul treno appena arrivato. “E dov’è questa clinica?”
“In centro, nella zona di Lambeth, non è distante dal Tamigi ma non mi ricordo il nome.”
“Ho capito,” disse Lillian. “Ci vediamo lì, ti va?”
“Sì, assolutamente. Gli dobbiamo stare vicino, Lilly…” disse Claire, soffocando un singhiozzo.
“Non preoccuparti, cucciola, gli staremo accanto e lui starà meglio. Te lo prometto.”
“Ma non devi… non dire nulla a nessuno, chiaro? Per ora… finché Jules non dice il contrario… per ora lo sappiamo solo io e te, chiaro?”
“Sono muta come un pesce, Claire. Solo io e te.”
“Grazie, Lilly. Grazie, grazie, sei un’amica.”
“Stai tranquilla, tigrotta. Io sto andando lì, dovrei essere in zona fra un paio di fermate. Chi prima arriva aspetti l’altra.”
Mettendo giù il telefono, Lillian fu assalita da una sensazione di soffocamento. L’improvvisa rivelazione dell’amica l’aveva schiacciata con il suo peso: il padre di Jules, il ragazzo con cui aveva trascorso assieme a Mills così tanto tempo, che conosceva così bene, stava vivendo una tragedia tale da aver persino tentato il suicidio. E Jules non l’aveva mai detto a nessuno.
Si sentiva oppressa e infuriata. Oppressa, perché sapeva di non poter fare nulla di definitivo per poter sistemare la situazione di Jules; infuriata, perché come al solito il topo non aveva detto nulla a nessuno. Fortunatamente aveva parlato con Claire, che non era mai stata in grado di tenere un segreto, figurarsi riuscire a non confidare un dramma del genere a una amica fidata come Lillian.
Si sedette accanto ad un uomo anziano con un giornale in mano, lasciandosi andare ad un sospiro lungo e pesante ed evitandone lo sguardo.
“Va tutto bene, signorina?” le chiese l’uomo, mettendo giù il suo giornale.
“Sì… a me sì, almeno.”
“Era un sospiro troppo lungo per qualcuno a cui le cose vanno bene.”
“Sto andando a trovare un amico malato. In ospedale,” disse Lillian.
“Ah,” disse il vecchio, annuendo. “Ne so qualcosa. Ma sono certo che si riprenderà,” le disse, alzandosi. “Avrà anche bisogno degli amici e delle amiche per guarire.”
“Già,” fece Lillian.
L’uomo le sorrise e si avvicinò alla porta del vagone. Quando il treno si fermò, si voltò verso di lei e le augurò ancora che il suo amico guarisse presto, quindi scese.
La clinica Collins era specializzata nel trattamento di morfi, ma aveva delle ali destinate a ricovero per anziani e per pazienti con malattie psichiatriche. Era un centro posto in prossimità del Tamigi, con un grande giardino sul retro che dava proprio su una delle rive del fiume; l’edificio era una parte di una antica fonderia, abbattuta e ricostruita in stile moderno, un florilegio cubico di cemento, acciaio e vetro che spuntava dal suolo e dal verde come un osso rotto.
La clinica, fondata da un ricco industriale, era stata in passato oggetto di pesanti critiche per essere nata solo per morfi. Proprio per evitare di sollevare un polverone, Peter Collins, il fondatore, aveva fatto aggiungere quelle due ali specifiche. Lillian aveva sentito parlare del posto proprio dai telegiornali, che per diverso tempo avevano inseguito il caso.
Claire aspettava l’amica all’esterno dell’edificio, passeggiando su e giù come un animale in gabbia. Appena la vide, la strinse in un grande e forte abbraccio: nonostante il vigore la soffocasse, la tasso si lasciò prendere, lasciò che la tigre si sfogasse in tutto e per tutto.
“Ciao,” mormorò la tigre, ancora nell’abbraccio, singhiozzando.
“Va tutto bene, Claire. Va tutto bene,” cercò di dire Lillian, spiazzata.
“No che non va bene…”
“Faremo andare bene le cose noi,” le disse, allontanandola da sé tenendola però per le braccia. “Non piangere ora, non farai guarire il papà di Jules così.”
“Lo so, ma… lui sta così male…”
“Jules?”
“Sì.”
“Dov’è?”
“E’ di sopra, al terzo piano.”
“Andiamo, allora.”
Le due amiche salirono in ascensore. Alla chiusura delle porte, Claire afferrò la mano di Lillian e la strinse forte, fino a farle male. “Coraggio,” le mormorò la tasso.
Le porte si aprirono su un corridoio pulito. Sullo stesso lato su cui si era aperto l’ascensore erano visibili le porte delle camere dei vari pazienti, mentre sul lato opposto si aprivano delle grandi finestre che davano sulla strada e sul resto della città. Nella luce del giorno che entrava con forza dalle vetrate Lillian poté vedere alcuni dei pazienti passeggiare lungo il corridoio. Si trattava principalmente di anziani, accompagnati da infermiere in camice azzurro e colletti e risvolti bianchi.
“Lui dov’è?” chiese a Claire.
“Credo di là,” fece lei, indicando la fila di porte alla loro destra.
Le due morfe corsero in quella direzione. “Centouno, centodue, centotre,” contava Claire. “Centocinque. Eccola,” fece, fermandosi davanti a una porta aperta.
Ne uscì una morfa, una labrador che indossava un camice evidentemente troppo stretto, soprattutto sul ventre. La cagna si chiuse la porta alle spalle. “Mi dispiace, non si può entrare.”
“Ma…”
“Siete parenti?”
“No, io sono la…”
“Mi dispiace, non si può entrare.”
“Ma io sono la sua…”
“Senta, signorina, non mi interessa chi sia lei,” l’interruppe la labrador. “Non è una parente, quindi ora non può entrare. Non è orario di visita. Il signor Penderton sta dormendo, e dentro c’è già suo figlio. Sono stata chiara?”
“Potrebbe per favore chiamare il figlio?” chiese quindi Lillian.
“Sì, penso di sì,” disse l’infermiera, sbuffando. Sparì dietro la porta, per riemergere pochi attimi dopo con Jules. Lillian non riuscì a vederlo: la tigre lo prese a sé, abbracciandolo con vigore e letteralmente avvolgendolo.
“Ciao ragazze,” disse lui, stropicciandosi gli occhi, dopo essere emerso dall’abbraccio della morfa.

Claire era rimasta con Jules, dopo una lunga discussione con l’infermiera morfa, e aveva chiesto a Lillian se potessero rimanere soli. Così la tasso era scesa, con l’idea di tornare a casa; l’incontro con Jules l’aveva messa a disagio, e non vedeva l’ora di poter staccare un po’ testa e cuore.
Passando attraverso la reception, lo sguardo di Lillian cadde su un blocco di depliant blu notte. Ne prese uno e lo sfogliò rapidamente, quindi lo rimise giù. Fece un passo, si fermò, tornò indietro e lo riprese, quindi uscì.

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