venerdì, agosto 05, 2011

Capitolo 45 – Lillian prende una decisione importante

Lillian si rigirava ormai da diversi minuti il telefono fra le mani, il volantino preso dalla clinica aperto di fronte a sé sul tavolo del soggiorno, mordenosi il labbro.
Poi scosse la testa e compose il numero.

Lillian si presentò alla reception della clinica. “Buongiorno… mi chiamo Lillian Edgecombe, sono la m… la volontaria del servizio al terzo piano.”
La signora alla reception alzò lo sguardo dal modulo che stava compilando. “La signorina Edgecombe?”
“Sì, sono io.”
“Le chiedo di attendere alcuni minuti, signorina, le chiamerò subito un’addetta,” rispose l’altra, afferrando un telefono.
“D’accordo, la ringrazio.”
Lillian prese posto su una piccola seggiola in plastica, lungo una fila di sedie identiche, accanto al muro vicino all’ingresso della clinica. In quel momento tutto era sgombro, non c’erano pazienti in giro né parenti in visita. Solo Lillian e l’infermiera alla reception, che stava confabulando a voce bassa.
Uno schermo televisivo alla parete, che il giorno precedente non aveva notato, trasmetteva una vecchia registrazione di una intervista a Peter Collins. La stessa che i telegiornali di qualche anno prima avevano mostrato a pié sospinto, quando il “caso Collins” era scoppiato. Un uomo sulla cinquantina, imbolsito ma con uno sguardo duro che inquietava la morfa, batté un pugno sulla scrivania da cui veniva intervistato. “No!” esclamava. “La clinica non è un ghetto, né un campo di concentramento. I morfi non sono come gli esseri umani: sono poche le malattie che le due specie condividono, ed è giusto che i morfi abbiano non solo la possibilità di essere circondati dai loro simili, ma anche quella di ricevere le cure più adeguate e focalizzate sui loro casi. Si immagini un centro medico di grandi dimensioni, che già deve affrontare decine, centinaia di casi di esseri umani al giorno, dover far fronte ad eventuali emergenze mediche riguardanti morfi: come le gestirebbe? Riuscirebbe a farcela o… o collasserebbe?
“Siamo stati fortunati finora,” continuava, asciugandosi il sudore sulla fronte. “Molto fortunati, a non avere ancora avuto epidemie specifiche per i morfi. Ma un virus può impiegare ben poco per evolversi e infettarli, e a quel punto… infrastrutture mediche inadeguate potrebbero significare la… la fine per centinaia di morfi. O, viceversa, immagini un patogeno in grado di compiere il salto di specie, passando dai morfi agli umani… l’HIV l’ha fatto, dopotutto, così come è accaduto per l’influenza suina o per quella aviaria, e non c’è motivo per pensare che non possa accadere ancora. E i morfi sono geneticamente più vicini a noi rispetto a… agli animali.
“Mio nipote ha sei mesi, signorina,” fece l’uomo, la voce d’un tratto resa tremante, lo sguardo ancora pieno di violenza. “E’ un morfo. Sa che cosa significa questo per me? E per mia figlia? Entrambi vogliamo solo il meglio per lui. Vogliamo che viva, che sia felice, che sia… circondato dall’amore di tutti. Ma per farlo deve poter avere il meglio che la medicina possa offrirgli, e la clinica che ho in mente servirà proprio a questo.” Poi l’uomo si schiarì la gola, distogliendo lo sguardo dall’intervistatrice, ancora silenziosa. “Ma, visto che voialtri non riuscite a non vedere il male dappertutto, anche quando non c’è, ho deciso di zittirvi tutti. Avevo previsto questa mossa quando ho deciso di aprire la clinica, e per questo ho già preso contatti con altre cliniche private qui a Londra. Una si occupa di pazienti affetti da malattie mentali – no, non posso divulgare nomi – l’altra è per anziani. Entrambe trasferiranno nei due piani dell’edificio ancora sfitti una parte dei propri pazienti. Avranno lo stesso rispetto che dedichiamo ai morfi, nulla di più e nulla di meno. Così la smetterete di dirmi che…”
“Lillian Edgecombe?” la chiamò un’infermiera.
“Sono io.”
“Mi segua, per favore,” disse l’altra, invitandola a venire con lei. Insieme, le due salirono con l’ascensore fino al terzo piano. “Mi chiamo Eileen Mulligan, mi occupo dei pazienti al secondo piano e, in genere, di guidare i volontari part-time. Ma, visto che tu ti occuperai dei pazienti del terzo piano, sono qui solo per accompagnarti da chi si occuperà di te sul serio,” disse, prima che le porte dell’ascensore si aprissero su un corridoio. “Lei è Geena,” disse quindi l’infermiera, presentando a Lillian la labrador del giorno precedente, nel suo camice troppo stretto e con una nuvola di ricci biondastri sulla testa. “E’ con noi da quasi dieci anni ed è infermiera di ruolo qui al terzo piano,” spiegò, mentre la cagna stringeva mollemente la mano sinistra alla tasso, la destra impegnata con un barattolo. Lillian sentì il tocco gelido di un anello: una fede all’anulare di Geena.
“Piacere,” disse Geena, in tono poco convinto. Fissava Lillian negli occhi, ma aveva uno sguardo duro.
“Piacere mio,” rispose invece Lillian con vigore, squadrando a sua volta la morfa.
“Bene. Geena, come ti ho già detto, Lillian è la volontaria che subentrerà ad Ariadne per i turni di notte.”
“Sì, me lo ricordo. E mi ricordo di te,” disse poi a Lillian, che annuì debolmente in risposta.
“La lascio a te. Lillian, sei in buone mani.”
“Grazie mille, signora Mulligan,” rispose la morfa, salutando l’altra infermiera.
“Bene,” disse quindi Geena. “Ora siamo io e te, a quanto pare. Accompagnami, sto finendo il giro delle medicine,” disse, prendendo un gran vassoio che aveva appoggiato ad un tavolo. “Quanti anni hai, Lillian?”
“Ventisette. Sono della prima generazione.”
“Anche io. Siamo coetanee,” fece la labrador, in tono un po’ più sciolto rispetto a poco prima. “Io sono qui da parecchio tempo, ormai nove anni. Sempre stata in servizio in vari piani, a tutte le ore.”
“Nove anni? Devi avere molto a cuore questo posto.”
“No e sì. No, perché mi sono fatta assumere quando non avevo voglia di studiare e volevo mantenermi. Sì, perché ormai ammetto che sono affezionata agli ospiti,” ammise, bussando alla prima delle porte del corridoio. “Signora Carew? E’ l’ora delle medicine.”
Lillian scoprì che Geena era burbera, cinica e in certi casi quasi scontrosa nei suoi confronti, ma riservava ai pazienti della clinica una cura unica, quasi fossero suoi parenti. L’affetto sembrava essere ricambiato, almeno da coloro che la riconoscevano. E non usava mai la parola “pazienti” quando ne parlava, ma li chiamava sempre e solo “ospiti.” “Tecnicamente sì, dovremmo chiamarli “pazienti,” ma io sinceramente non me la sento,” le spiegò, durante una pausa caffè. “Mi sembra di essere in uno di quei grandi ospedali da serie televisiva, cosa che questa clinica non è. Ma veniamo a te, Lillian Edgecombe. Tu farai con me i turni di notte, quindi sarai qui tre volte la settimana dalle ore 2000 alle ore 2400.”
Lillian annuì. “Sì, me lo avevano accennato.”
“Come mai i turni di notte? Penso che tu sia l’unica matta che sia venuta qui volontariamente a chiederli.”
“Perché… perché sì. Perché alla fine sono turni scomodi per tutti, ma per me sono perfetti, e almeno posso prendermi cura dei… degli ospiti.”
Geena le rivolse un’occhiata poco convinta, inarcando un sopracciglio mentre inghiottiva il resto del caffè dal bicchierino di plastica. “So che posso sembrare una stronza, Lillian, ma ti voglio mettere in guardia: qui ci sono anche degli ospiti con seri problemi mentali. Non è una passeggiata prendersene cura, non stiamo giocando al dottore. Ci sono passata prima di te, infermiera qui senza una formazione medica vera. Da questo punto di vista siamo pari, quindi mi prendo la libertà di darti qualche dritta.”
“Va bene, grazie, ma immaginavo che non sarebbe stata una passeggiata.”
“Bene,” rispose l’altra. “Mi raccomando, mai prendere queste situazioni poco sul serio: stiamo parlando di esseri umani, e morfi, ovviamente. Alcuni di questi potrebbero essere pericolosi; non molto, ad essere sincera, ma c’è sempre qualche rischio. Due settimane fa, per esempio: il signor Morton ha cercato di chiudermi in un armadio. Soffre di disturbi bipolari, e ogni tanto…” Geena fece un cenno con la mano davanti ai suoi occhi. “Ogni tanto parte per una tangente tutta sua. Per il resto del tempo è un buon caprone.”
Geena passò il resto del tempo ad indicare a Lillian procedure di sicurezza, armadietti, sale in cui riposare, il modo in cui trattare con i pazienti meno autosufficienti, il modo in cui accedere alla mensa per eventuali spuntini notturni e come procurarsi le chiavi d’accesso.
Accompagnandola alla porta, Geena la prese per un braccio. “Dimmi la verità, Lillian. Perché sei qui?”
“Te l’ho detto…”
“Non ci credo. Te lo leggo negli occhi: né tu né io abbiamo l’istinto della crocerossina. Quindi, perché sei qui? C’è qualcuno che conosci? Guarda che non c’è niente di male.”
“No e sì,” ribatté Lillian. “Ho deciso di… venire qui come volontaria perché è stato appena ricoverato qui il padre di un mio caro amico. Così ho pensato che avrei potuto aiutare lui e gli altri ospiti della clinica in qualche modo. Mi sembrava giusto, tutto qui. Ti sembra troppo da crocerossina?”
“No, è giusto. Mi sembri più normale delle altre ragazze che ti hanno preceduto: o puttane o missionarie, nessuna che fosse qui per gli ospiti. Alla fine, venivano tutte per se stesse. Forza, ora,” concluse. “Ci vediamo domani sera.”

“Claire?” fece la tasso al telefono con l’amica, prima della lezione con Ivan. “Devo dirti una cosa.”
“Ti prego, non…”
“Stai tranquilla, non è nulla di cui ti debba preoccupare. Anzi. Ecco, oggi mi sono… iscritta come infermiera volontaria.”
“Dove?”
“Alla clinica Collins.”
Claire rispose dopo qualche secondo. “Perché?”
“Perché… Claire, non mi va di parlarne. Ho i miei motivi. Per favore.”
“Va bene. Come è andata?” le chiese subito Claire. “Com’è il posto?”
“E’ come l’abbiamo visto insieme, Claire,” le confermò Lillian.
“E le infermiere?”
“Quella del piano a cui è il padre di Jules si chiama Geena. Ha la nostra età…”
“La morfa? Quella labrador larga come una porta che l’altro giorno mi ha quasi urlato in faccia?”
“Sì, lei,” disse Lillian. “Ti assicuro che non è stronza come sembra.”
“Lo spero per te, Lilly. Ma hai visto come si è comportata con me?”
“E’ acida, sì. E cinica. E scorbutica. Ma con i pazienti è un tesoro.”
Claire sospirò. “Quindi almeno tratterà bene il signor Penderton, dici.”
“Sì. Non mi limito a dirlo, l’ho visto. E’ amorevole, con loro.”
“Almeno quello.”
“Ti fa stare meglio la cosa?”
“Jules soffrirebbe da morire se sapesse che suo padre è affidato a un branco di stronzi,” disse la tigre. “E io con lui.”
Lillian sorrise all’affermazione di Claire, altro pezzo di un puzzle mentale a cui la morfa lavorava da tempo.
“Ti sento che sorridi, là dietro quella cornetta,” le fece l’amica. “Ok, te lo dico. Ma se ti azzardi a fare uscire questa cosa da questa telefonata ti sbrano, è chiaro? Giuro che lo faccio.”
“Chiarissimo,” fece Lillian, pensando alla formidabile dentatura dell’amica.
“Io e Jules siamo… fidanzati. Da sei mesi.”
“Penso che fosse ormai palese, Claire.”
“Davvero?” chiese la tigre, perplessa, dopo una breve pausa.
“Credi che al nostro branco di pettegoli possano essere sfuggiti i vostri atteggiamenti? Ormai lo sanno anche i sassi…” commentò la tasso.

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